Non è un Paese per giornalisti
In meno di un mese, ben 6 i professionisti dell’informazione assassinati in Messico
di Domenico Spampinato
“Nessuno di noi avrebbe voluto essere corrispondente di guerra. Però un giorno la guerra ha bussato alle nostre porte, senza mai abbandonare la nostra abitazione”. Così hanno riferito Rocío Gallegos, Sandra Rodríguez e Luz Sosa, intervenute a un dibattito sul giornalismo svoltosi lo scorso novembre alla “Fiera del libro di Guadalajara”. “A partire da quel momento la nostra vita è inevitabilmente cambiata”. E non poteva essere altrimenti: le tre giornaliste scrivono per “El Diario” di Ciudad Juarez, città che negli ultimi 6 anni è violentemente balzata agli onori della cronaca quale massima capitale del terrore.
L’esercito per le strade messicane (World Press Photo 2012, Pedro Pardo)
Durante la Seconda Guerra Mondiale sono morti 68 giornalisti. Durante la guerra in Kosovo, invece, le vittime sono state 36. In Messico il bilancio è ben più drammatico: 80 vittime in soli sei anni, 11 delle quali soltanto lo scorso anno. Eppure, il Messico non è in guerra. Non ufficialmente, beninteso.
Non appena salito al potere, il Presidente Felipe Calderón ha letteralmente deciso di dichiarare guerra ai “signori del narcotraffico”, schierando il suo esercito per arginare il problema della criminalità organizzata. La sua strategia si è rivelata un disastro. Un bagno di sangue durato 6 anni. Una spaventosa carneficina che, lungi dal risolvere l’annosa questione, ha prodotto oltre 50.000 vittime. Il mandato di Calderón si appresta a concludersi, mentre la Corte Penale dell’Aja sta studiando il dossier che lo vede accusato di crimini contro l’umanità.
Il 3 maggio si è celebrata la Giornata Mondiale della libertà di Stampa. Per il Messico, la ricorrenza non è stata felice. Proprio quel giorno, a Veracruz, sono stati ritrovati i corpi di 3 fotografi che lavoravano per delle testate locali. Avvolti in un sacco di plastica, gettati in un canale. Esanimi. L’omicidio multiplo di Guillermo Luna, Gabriel Huge ed Esteban Rodríguez giunge a pochissimi giorni di distanza dall’assassinio di Regina Martínez, reporter del settimanale “Proceso”, strangolata il 29 aprile scorso nella propria abitazione.
Regina era una giornalista seria, onesta, dedita al proprio lavoro. Il suo ultimo articolo raccontava la misteriosa morte di Rogelio Martínez, militante di sinistra trovato morto il 26 aprile scorso. La sua unica colpa, l’amore per la verità. Regina era una giornalista scomoda, come scomodo è chiunque intenda approcciarsi al proprio mestiere con professionalità e dedizione.
Il suo medesimo approccio era adottato anche da René Orta Salgado e Marco Antonio Ávila García. Il primo è stato gambizzato e abbandonato nel cofano della propria auto in una strada qualunque dello stato di Morelos, il secondo è stato torturato e assassinato soltanto due giorni fa nei pressi di Sonora, Stato settentrionale situato al confine con gli Stati Uniti. Avvolto in un sacco di plastica nera, gettato per strada. Antonio è stato eliminato per una sola, semplice ragione: essere un giornalista.
Regina, Antonio e René raccontavano ciò che vedevano: le atrocità di una guerra mai riconosciuta come tale, quella guerra al narcotraffico impugnata e malgestita da Felipe Calderón. Una guerra capace a volte di produrre un centinaio di vittime in una sola giornata. Un conflitto in grado di mostrarsi agli occhi di un reporter con quello stile violentemente vistoso che la professionalità e il senso di responsabilità deontologico impongono di non tacere.
Proprio per questo Regina, Antonio, René, Guillermo, Gabriel ed Esteban non sono più tra noi.