Cina: una nuova leadership al potere

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Pechino cambia i propri vertici, con vecchi problemi da risolvere e nuove sfide da affrontare 
di Alessandra Colarizi
Sette. E’ il numero dei “magnifici” che siederanno nel Comitato permanente del Politburo, la stanza dei bottoni cinese, per i prossimi anni. Due di loro, Xi Jinping e Li Keqiang – rispettivamente successore del presidente e segretario generale del Pcc Hu Jintao e del Premier Wen Jiabao – rimarranno al potere fino al 2022, mentre per gli altri cinque potrebbe prospettarsi un pensionamento anticipato, tra cinque anni, per sopraggiunti limiti d’età. Wang Qishan, Zhang Dejiang, Yu Zhengsheng, Liu Yunshan e Zhang Gaoli compongono il resto della rosa, ridotta di due membri rispetto alla precedente di nove.

“I magnifici sette” del nuovo Politburo cinese (Fonte immagine: http://cdn.tempi.it)

Smentendo le speculazioni degli ultimi giorni, Hu Jintao ha ceduto al suo erede anche la presidenza della Commissione militare centrale, il potente organismo che governa l’Esercito; un fattore che conferisce maggiori poteri a Xi Jinping, consentendogli un più ampio spazio di manovra. Oggi Segretario del Partito e leader delle forze armate, Xi solo a marzo assumerà, ufficialmente, la carica di presidente della Repubblica popolare.

Tecnicamente delineata sul voto dei 205 membri del Comitato Centrale del Pcc durante il XVIII Congresso, la nuova geometria del potere, è, in realtà, il frutto di mesi di accordi e scontri tra le varie fazioni del Partito. Una lotta ai vertici che ha visto Hu Jintao e l’ex presidente Jiang Zemin – solo apparentemente lontano dalla politica attiva – spintonarsi per piazzare i propri uomini in posizioni chiave. Il risultato di questa “battaglia” è un Empireo caratterizzato dalla preponderanza netta di “principini“, ovvero gli eredi dei veterani del Partito e, pertanto, abituati ai privilegi del potere, fatta eccezione per quella buia parentesi della Rivoluzione culturale, impietosa verso i rampolli dell’aristocrazia “rossa”.
Il numero uno
Lo scorso settembre era sparito nel nulla. Di lui si è detto di tutto, ma mai il Partito ha svelato le ragioni della sua prolungata assenza dalla scena pubblica. Xi Jinping, 59 anni, figlio di Xi Zhongxun (funzionario vicino al riformista Hu Yaobang) sfila ad ampi passi sulla moquette rosso cremisi della Grande Sala del Popolo, poi tiene banco per circa un quarto d’ora, annunciando le sfide per la nuova leadership; corruzione e riforme in primis. Nuovo numero uno, e pur sempre un primus inter pares, come stabilisce la leadership collettiva, frutto dell’epurazione del culto della personalità targata Mao Zedong. Possiede tutte le credenziali per portare avanti le riforme caldeggiate dall’ala liberale del Partito e per anni vagheggiate dal primo ministro uscente Wen Jiabao.
Sono bastate poche battute sul palco del Congresso per mettere in risalto una personalità brillante, ben distante dal grigiore di Hu Jintao. Al suo debutto come Segretario generale del Partito, Xi non cita il marxismo né il pensiero del Grande Timoniere; piuttosto scherza sui 45 minuti di ritardo con i quali ha fatto attendere i giornalisti di mezzo mondo.
Tutt’altro stile rispetto al lento ed enfatico scandire di Hu, che dall’inizio del proprio mandato ha ridotto al minimo le sue apparizioni pubbliche. Su quest’ultimo, quando prese il potere dieci anni fa, si erano concentrate le speranze di chi auspicava una sinergia tra riforme politiche e apertura economica. Speranze tramontate in una “decade d’oro“, di fatto, soltanto per la stampa ufficiale.
Gli altri cinque
Zhang Dejiang, economista formatosi in Corea del Nord nonché sostituto del deposto boss di Chongqing Bo Xilai, e Wang Qishan, esperto di finanza, sono accoliti di Jiang Zemin. Un fattore che li accomuna a Xi Jinping, leader in pectore dal 2007, il cui destino fu tracciato proprio dal grande vecchio della politica cinese.
E con Yu Zhengsheng e Zhang Gaoli, appartenenti alla cricca di Shanghai – di cui il vecchio presidente è leader – e Liu Yunshan, capo del Dipartimento della Propaganda, in posizione mediana tra Hu Jintao e Jiang Zemin, di fatto, al presidente uscente non resta che un unico alleato diretto nel Comitato permanente: Li Keqiang, successore di Wen Jiabao a capo del governo, uscito dalla Lega della gioventù comunista, il feudo politico di Hu Jintao.
Solo sette
Dopo una settimana, il XVIII Congresso (anche detto Shibada in cinese) si è chiuso con un Comitato permanente del Politburo ridotto da nove a sette membri. Una manovra, questa – secondo gli esperti – volta a garantire maggiore coesione, in un anno di scandali e ingorghi politici. Ma soprattutto in previsione di una nuova epoca, in cui, abbandonati tassi di crescita a due cifre (il terzo trimestre del 2012 si è chiuso con un +7,4%), il Dragone si troverà a dover prendere decisioni rapide per far fronte al rallentamento della macchina economica.
E cercare di raggiungere la soglia psicologica dell’8%, ritenuta da Pechino risultato minimo per contenere il problema disoccupazione. A lanciare un’ulteriore sfida è stato proprio Hu Jintao, che nel suo discorso d’apertura ha richiesto alla nuova leadership, entro i prossimi dieci anni, un raddoppio del PIL e del reddito procapite ottenuti nel 2010. Un obiettivo che, alla luce della crisi dell’Eurozona (l’Ue è il primo partner commerciale del Dragone!) richiede un nuovo paradigma di crescita, non più imperniato sulle esportazioni. Ma questo l’amministrazione Hu-Wen sembrava averlo già capito, tanto che nei primi nove mesi del 2012, il 55% della crescita è derivato proprio dai consumi interni
Le sfide per i nuovi leader
Tra i vari nodi al pettine che i “magnifici sette” dovranno sbrogliare, oltre al problema corruzione, compare, il rischio bolla immobiliare e lo strapotere delle quattro grandi banche (Bank of China, Agricultural Bank of China, China Construction Bank e Industrial and Commercial Bank of China) – che bloccano gli investimenti ai privati – e delle società statali che monopolizzano settori chiave, stroncando la concorrenza e ingolfando il sistema.
E ancora: l’indebitamento delle amministrazioni locali attraverso il sistema delle Local Investment Companies (LIC) che, nel biennio 2009-2010, hanno ricevuto prestiti dalle banche per l’equivalente di 1282 miliardi di euro, di cui un quinto sarebbe in sofferenza; il gap tra ricchi e poveri e il peggioramento delle condizioni ambientali.
Spinosa anche l’agenda estera, con una serie di controversie territoriali che pesano sui rapporti tra Pechino e alcuni paesi rivieraschi della regione Asia-Pacifico, impegnati a rivendicare la propria sovranità su alcune isole nel Mar Cinese Meridionale e Orientale. Meriterebbe una parentesi a parte la questione tibetana, che ha accompagnato tutta la durata del Congresso con una lunga scia di auto-immolazioni contro Pechino: almeno 74 le autocombustioni dal 2009 -10 soltanto tra il 7 e il 15 novembre – per chiedere l’indipendenza del Tibet e il ritorno del Dalai Lama, in esilio dal ’59.
Riforme graduali
Alla vigilia del conclave rosso, la Reuters aveva pronosticato per il Grande Diciottesimo un potenziamento della “democrazia intrapartitica” ed elezioni più competitive, con il 20% in più di candidati rispetto al numero dei seggi nel Politburo. Secondo fonti anonime, doveva essere il lascito di Hu Jintao ai nuovi “imperatori”; una svolta storica che, alla luce di quanto è invece avvenuto, si farà ancora attendere.
Dopo giorni di illazioni circa una possibile rimozione dell’ideologia maoista dallo Statuto del Partito, lo Shibada ha riconfermato l’eredità del padre della Repubblica popolare. Di più. Ha consacrato i concetti di “sviluppo scientifico” e “società armoniosa” cari a Hu Jintao. Alcuni giorni fa lo stesso Xi Jinping, davanti alla delegazioni di Shanghai, aveva ribadito che la Cina “non dovrà copiare i sistemi politici occidentali“, continuando a seguire la via del “socialismo con caratteristiche cinesi“.
L’equilibrio finale della nuova leadership – priva del campione riformista Wang Yang dato, per mesi, tra i papabili – pende visibilmente verso il conservatorismo. Una proiezione autorevole sul futuro della Cina l’ha offerta Sidney Rittenberg, ex confidente di Mao rinchiuso in isolamento per 16 anni. Secondo lui,  Pechino agirà con cautela: “L’inerzia è formidabile” spiegava lunedì il 91enne americano “vedremo passi avanti ma non cambiamenti sostanziali. Il gioco non può cambiare, Xi non ne ha la forza anche se volesse“.
Il dibattito sulle riforme del Dragone, negli ultimi tempi, ha lasciato una scia d’inchiostro sulle principali testate internazionali. Il Wall Street Journal, ad esempio, ha ospitato un lungo botta e risposta tra Cheng Li, analista politico della Brookings Institution, e Minxin Pei, professore di Scienze del Governo presso il Claremont McKenna College. Entrambi concordano sul fatto che, se le riforme arriveranno, saranno il prodotto di pressioni dal basso.
Il popolo, esasperato per le ingiustizie sociali, comincerà ad alzare sempre di più la voce fino a quando il Partito non deciderà di ascoltare per evitare una rivoluzione. Ormai da anni Pechino ha smesso di rilasciare le statistiche ufficiali, dopo che il numero annuo delle proteste violente ha superato la soglia delle 100mila. Ma -secondo Sun Liping, professore di sociologia presso l’Università Qinghua – solo nel 2010, gli “incidenti di massa” sarebbero stati circa 180mila.
E se la corruzione ad ogni livello del Partito rappresenta il vero nervo dolente del Dragone, i due esperti non hanno dubbi: è necessario rompere i monopoli di Stato e riformare il sistema bancario, dando maggiori opportunità alle piccole imprese. Una svolta sulla quale, tempo fa, aveva posto l’accento anche Wen Jiabao durante un discorso riportato in esclusiva da China Radio International (CRI). Ma con il Pcc come gruppo d’interesse più potente in Cina, non desta stupore il continuo procrastinare dei leader, poco inclini a rinunciare ai propri privilegi.
Un ruolo chiave nelle riforme dovrà, poi, essere svolto dalla progressiva “apertura” dei media, che peccano di mancata trasparenza: una manovra necessaria per fare ordine sull’internet cinese, vox populi, ma anche fabbrica di dicerie infondate, in quanto unica valvola di sfogo di cui dispongono i cittadini. Distorsione, quest’ultima, che può essere sanata soltanto rendendo i media mainstream un’attendibile fonte d’informazione.
Molte di quelle sopra citate sono questioni sulle quali la vecchia leadership si era già espressa nel corso del suo governo. Ma nell’anno dello scandalo Bo Xilai e del cortocircuito politico più grave dal 1989, il Partito soffre di una profonda crisi di credibilità. E adesso non bastano più le parole, ci vogliono i fatti.

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