Israele vs Gaza: la storia si ripete
L’attacco israeliano degli ultimi giorni riporta alla mente l’operazione del 2008 “Piombo fuso”
di Maria Paterno
Dopo l’uccisione di Ahmed al Jabari, leader del braccio militare di Hamas, colpito a Gaza da un missile israeliano mentre viaggiava sulla sua auto, l’annoso conflitto israelo-palestinese è nuovamente esploso. L’operazione israeliana “Pillar of Defence”, scattata a seguito del lancio di razzi da Hamas verso Israele – in risposta all’assassinio di Jabari – pare quasi un remake dell’operazione “Piombo fuso” che tra il 2008 e il 2009 mise sotto assedio la striscia di Gaza provocando milletrecento vittime.
Le analogie rispetto a quattro anni fa balzano subito agli occhi. Come nel 2008, l’attacco è scattato a pochi giorni delle elezioni presidenziali statunitensi, che hanno visto la rielezione di Obama (inviso al primo ministro israeliano Netanyahu) e in prossimità della tornata elettorale in Israele, prevista per gennaio 2013. Difficile pensare che dietro l’attacco non ci siano calcoli politici, come si ipotizzò all’indomani di “Piombo fuso”. Non a caso, la carta migliore che oggi può giocare l’ala di destra, guidata dal premier Netanyahu e dal ministro degli esteri Liebermann, è quella della sicurezza. Rispetto al 2008, però, un aspetto importante da considerare è il cambiamento dell’assetto geopolitico mediorientale, che contribuisce a rendere la situazione estremamente più complessa.
Dopo le primavere arabe alcuni interlocutori alla guida degli stati vicini d’Israele sono cambiati, uno tra tutti Hosni Mubarak. Oggi l’Egitto è governato da Mohamed Morsi, leader del partito Fratellanza musulmana da cui ha avuto origine la milizia armata Hamas: era quindi inevitabile che il neo presidente egiziano si schierasse al fianco del popolo palestinese. Senza perdere tempo, ha richiamato in Egitto il suo ambasciatore a Tel Aviv, ha inviato il premier Hisham Qandil in visita a Gaza, ha riaperto il passaggio di Rafah, al confine tra Gaza e l’Egitto e ha consultato la Lega Araba, il Consiglio di sicurezza dell’ONU e la Casa Bianca. Il tutto, nel chiaro intento di allentare l’isolamento diplomatico riservato ai palestinesi.
Altro teatro mutato dopo le rivoluzioni arabe è quello siriano. Damasco è una bomba ad orologeria che rischia di deflagrare in tutto il Medio Oriente e che si regge in equilibrio precario su una rete di “alleanze”. Da un lato Qatar, Egitto e Turchia, sostenitrici dell’ Esercito siriano libero ed amici di Gaza, dall’altro l’Iran, vicino ad al Assad ma simpatizzante di Gaza ed acerrimo nemico di Israele. Di non poco conto, inoltre, la posizione degli Stati Uniti, avversi al regime di Assad e tacitamente d’accordo all’attacco di Gaza, pur di evitare un conflitto tra Israele e Iran. Infine lo Stato ebraico, che alla degenerazione jihadista tra le fila dei ribelli siriani preferisce il regime di Damasco.
Insomma, lo scenario è quanto mai complesso ed al momento non si può escludere che nell’operazione “Pillar of Defence”, oltre che un mero calcolo politico in vista delle elezioni, ci sia anche un segnale di forza rivolto al Medio Oriente e ad Ahmadinejad in particolare. Infatti, secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Ha’aretz, il premier Netanyahu e il ministro della difesa Barak sembra non abbiano mai rinunciato alla prospettiva di una guerra contro l’Iran, ma l’abbiano solamente ritardata a causa delle elezioni Usa.