All’Onu un sì per la Palestina
Ramallah ha il suo scranno nel Palazzo di Vetro, ma da Tel Aviv scatta la ritorsione
di Maria Paterno
Lo scorso 29 novembre il presidente dell’Anp Abu Mazen, di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha chiesto e ottenuto l’ammissione all’Onu della Palestina come “Stato non membro osservatore permanente”, con 138 voti favorevoli, 9 contrari – tra cui quello degli Stati Uniti – e 41 astenuti.
Una data storica per molti, meramente simbolica per altri. Infatti, se lo scranno all’interno del Palazzo di Vetro d’ora in avanti consentirà alla Palestina di denunciare Israele al Tribunale penale internazionale o alla Corte internazionale di giustizia – l’organo giurisdizionale delle Nazioni Unite – difficilmente riuscirà ad impedire le azioni dello Stato sionista, che dal ’47 ad oggi poco si è curato delle risoluzioni Onu, rimaste solo sulla carta.
A partire dalla prima, che prevedeva la nascita di due Stati, uno arabo e uno ebraico, entro l’agosto del ’48, passando per quella sul ritiro israeliano dai Territori occupati nel 1967, fino a quelle in cui si chiedeva la fine della costruzione di colonie israeliane.
Ma lo Stato palestinese, pur non avendo la storia dalla sua parte, si è messo subito a lavoro e già il 30 novembre ha presentato all’Assemblea cinque bozze di risoluzione, da adottare in merito alle misure per il congelamento delle attività coloniali israeliane – a Gerusalemme est e in Cisgiordania – e per lo stop alla costruzione del muro di separazione.
La risposta di Netanyahu non s’è fatta attendere. Il premier israeliano è sul piede di guerra ed ha annunciato la costruzione di tremila nuovi alloggi per coloni nella zona E1, sulla strada che collega Gerusalemme est alla Valle del Giordano, con l’obiettivo di creare la “Grande Gerusalemme”, includendo nei confini della città la colonia di Ma’ale Adumim.
Dura la reazione internazionale, prima fra tutte quella del fedele amico Usa. In una conferenza stampa a Washington il Segretario di Stato Hillary Clinton, alla presenza dei ministri israeliani della Difesa e degli Esteri Ehud Barak e Avigdor Lieberman, ha bacchettato Israele dichiarando che con queste attività lo Stato ebraico non fa altro che inficiare i negoziati di pace.
Per il delegato palestinese all’Onu Riyad Mansour, l’annuncio dell’espansione di Ma’ale Adumim non è che un modo per punire l’iniziativa palestinese, mentre per Hanan Ashrawi, del Comitato esecutivo dell’Olp, quella di Tel Aviv è una “provocazione” che mira a testare le intenzioni palestinesi riguardo un eventuale denuncia contro Israele per crimini di guerra o colonizzazione illegale.
Netanyahu, secondo quanto riportato ieri dal quotidiano Ynet, a dispetto della disapprovazione statunitense, ha dichiarato che “Israele continuerà a costruire a Gerusalemme e in ogni luogo della mappa degli interessi strategici dello Stato di Israele” e che “la mossa unilaterale dell’Autorità palestinese all’Onu è un’impudente violazione degli accordi firmati. Uno Stato palestinese non sarà stabilito senza un connesso accordo sulla sicurezza dei cittadini israeliani e prima che l’Autorità palestinese riconosca Israele come Stato del popolo ebraico e dichiari la fine del conflitto”.
Insomma, Israele continua ad agire con la forza e non teme l’isolamento diplomatico. Dalla sua parte sa di avere il primato militare e, nonostante i disaccordi, l’appoggio degli Stati Uniti. Inoltre, in vista delle elezioni di gennaio, tra i sostenitori di Netanyahu – il favorito per la vittoria – si stanno affermando esponenti dell’ala nazionalista più estrema, che non concepiscono l’idea di uno stato palestinese. La Palestina, dal canto suo, sa di non poter contare su alleati potenti quanto gli Usa, né su una minaccia militare pari a quella di Tel Aviv. Questo a testimonianza di come, a prescindere dal posto ottenuto all’Onu, sia ancora molto lunga e tortuosa la strada da percorrere per la definitiva risoluzione del conflitto israelo-palestinese.