La guerra dei passaporti
La Cina annette sui propri passaporti elettronici isole contese dai propri “cugini” asiatici, ed è bagarre nella regione Asia-Pacifico
di Alessandra Colarizi
E’ stata soprannominata la ‘guerra dei passaporti‘ e adesso rischia di esacerbare le tensioni tra la Cina e alcuni Paesi asiatici. Con una mossa indisponente, alcuni giorni fa Pechino ha emesso nuovi passaporti, in cui a pagina 8 compare una mappa della Repubblica popolare particolarmente estesa, comprensiva di una serie di zone contese al centro di dispute territoriali tra il Dragone e diversi vicini di casa. L’Arunachal Pradesh, l’Aksai Chin, Taiwan e tutte le isole del Mar Cinese Meridionale – comprese all’interno della ‘linea dei nove trattini’, che dal 1953 delimita l’estensione del Regno di Mezzo arrivando quasi a Singapore – vengono reclamate come territorio cinese in un puntare i piedi che ha già visibilmente irritato India, Taipei, Vietnam e Filippine.
E se Taiwan ha definito la manovra di Pechino ‘inaccettabile‘, mentre Manila e Hanoi hanno deciso di rilasciare nuovi visti su fogli a parte, rifiutandosi di timbrare i passaporti ‘made in China’ con le isole contese, Delhi ha preso provvedimenti più risoluti: l’ufficio che a Pechino gestisce le pratiche consolari per conto dell’ambasciata indiana ha cominciato ad emettere visti con una propria versione della mappa, dove Arunachal Pradesh e Aksai Chin risultano a tutti gli effetti indiani.
Nella geografia dei passaporti cinesi non compaiono invece le famigerate Diaoyu (Senkaku in giapponese), isole contese del Mar Cinese Orientale responsabili di un deterioramento dei rapporti tra Sol Levante e Impero di Mezzo, precipitati nel mese di settembre ad un nuovo minimo storico dopo l’annuncio dell’acquisto da parte di Tokyo di tre degli atolli da un famiglia giapponese che ne deterrebbe formalmente la proprietà.
Adesso la nuova mappa rischia di “innescare un’escalation abbastanza seria, perché la Cina sta rilasciando milioni di questi passaporti, che per gli adulti hanno validità di dieci anni. Così, se in futuro cambierà idea dovrà ritirarli tutti” ha commentato un alto diplomatico di base a Pechino.
Ma il governo cinese ha già provveduto a rilassare i toni. “Non bisogna equivocare la storia delle mappe sui nuovi passaporti cinesi” ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Hong Lei. “La Cina è disposta a rimanere in contatto con i Paesi interessati e promuovere uno sviluppo sano degli scambi tra il popolo cinese e il resto del mondo“. Una spiegazione che non ha tranquillizzato uno degli interlocutori più presenti nell’area, gli Stati Uniti, che per bocca della portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, si sono detti preoccupati per la ‘tensione e l’ansia’ che i nuovi passaporti potrebbero creare tra i paesi del Mar Cinese Meridionale.
Il Mar Cinese Meridionale
Negli ultimi mesi è stato teatro di accese dispute territoriali tra Cina, Vietnam, Filippine, Brunei, Malaysia e Taiwan, tutte impegnate a mettere le mani sulle isole Spratly (Cina, Vietnam, Malaysia, Brunei, Filippine e Taiwan), Paracel (Vietnam, Taiwan e Cina) e lo Scarborough Shoal (Cina e Filippine). Oltre ad alcune tra le rotte commerciali più lucrose al mondo, a fare gola ai Paesi della regione è soprattutto la ricchezza delle sue acque che, oltre ad essere molto pescose, secondo le stime dell’Energy Information Administration potrebbero ospitare fino a 16 miliardi di metri cubi di gas e 213 miliardi di barili di petrolio. Da parte sua, Pechino considera la propria sovranità sugli atolli ‘indiscutibile‘ – e garantita da alcuni documenti storici – così come su quasi tutto il Mar Cinese Meridionale, per un’area complessiva di circa 1,7 milioni di chilometri. Periodicamente le ostilità tra i vari cugini asiatici si riaccendono, in un tendere i muscoli che, sino ad oggi, ha dato vita ‘soltanto’ ad un via vai di navi da guerra, minacce e ritorsioni commerciali.
Nella giornata di sabato il Dipartimento degli Affari Esteri filippino ha invitato il governo cinese a fare chiarezza su una nuova legge che – “violando i domini marittimi dei paesi della regione e ostacolando la libera navigazione”- mira a rafforzare il controllo sull’area, permettendo alla polizia della provincia meridionale di Hainan di salire a bordo, controllare, trattenere, confiscare ed espellere le navi straniere trovate a solcare quelle che Pechino considera le proprie acque territoriali.
Quanto pesano le schermaglie nell’area lo dimostra il vertice che quest’estate ha riunito i ministri degli Esteri dell’Asean (l’Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico) conclusosi, per la prima volta in 45 anni, senza un accordo né un comunicato di chiusura dei lavori. Manila avrebbe voluto un testo che menzionasse esplicitamente la situazione pendente sulla secca di Scarborough, ma la Cambogia, ospite del summit e tra i principali alleati della Rpc, si è opposta. Di fatto, l’esito del vertice diplomatico di Phom Penh è stato letto come una vittoria diplomatica del Dragone. Nella stessa occasione, infatti, sarebbe dovuto essere redatta una bozza del Codice di condotta tra i Paesi membri e la Cina, legalmente vincolante per il Mar Cinese Meridionale.
Esito insoddisfacente anche per l’ultimo East Asia Summit (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico più le loro controparti statunitense, cinese, giapponese e australiana), tenutosi sempre nella capitale cambogiana a metà novembre, durante il quale il presidente filippino Benigno Aquino ha smentito un raggiunto consenso per non ‘internazionalizzare’ le dispute territoriali. Da sempre il Dragone si ostina a trattare i contenziosi su base bilaterale con i vari paesi implicati, evitando un’internazionalizzazione delle questioni che comporterebbe il coinvolgimento degli Stati Uniti, sempre più propensi a rivendicare per sé il ruolo di gendarme della regione. Se “per gli Stati Uniti il Ventunesimo Secolo sarà il secolo del Pacifico” – come dichiarato dal Segretario di Stato Usa Hillary Clinton alla fine del 2011 all’apertura del vertice APEC (Asia- Pacific Economic Cooperation) che riunisce 21 Paesi dell’Asia-Pacifico – al suo secondo mandato da presidente, Barack Obama ha ribadito il concetto ponendo il Sud-Est asiatico in cima alla propria agenda estera.
Di pari passo con il progressivo allontanamento dai teatri di guerra del Medio Oriente, il rinnovato dinamismo americano in Estremo Oriente viene avvertito da Pechino, non del tutto a torto, come una manovra di containment politico, economico, e militare ai propri danni. Il progetto di una task force marittima Usa in Australia da 2.500 soldati è uno dei campanelli che hanno fatto scattare l’allarme oltre la Muraglia. Ma se da una parte Washington non vuole lasciare soli i propri alleati asiatici (Giappone, Filippine, Taiwan, Corea del Sud e adesso anche Vietnam) ai quali è legato da vincoli storici, dall’altra manca di credibilità richiedendo alla Cina di attenersi al diritto internazionale, quando proprio gli Stati Uniti non hanno ratificato la Convenzione dell’Onu sul diritto del mare, il documento legale più rilevante in materia.
Pechino, d’altronde, non è rimasto a guardare, rispondendo all’assertività Usa con un budget per la Difesa che, secondo le dichiarazioni ufficiali del governo cinese, nel 2012 ha raggiunto i 670,7 miliardi di yuan (circa 106 miliardi di dollari), ma che stando alle stime del SIPRI (Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma) potrebbe superare del 50% le cifre rese note. E anche se con un distacco consistente, nel 2011 il Dragone è stato secondo soltanto all’Aquila quanto a spese per il riarmo.
Ma quella tra Cina e Stati Uniti è una competizione che trascende le manie di grandezza dei rispettivi eserciti e assume sempre più nettamente le caratteristiche di una sfida a colpi di zone economiche speciali: nessuno, di fatto, auspica un conflitto a fuoco. La Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), in cantiere da circa un anno, prevede la creazione di una partnership commerciale tra i 10 paesi Asean (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam) e 6 partner regionali Cina, Giappone, Corea del Sud, India, Australia e Nuova Zelanda. Un progetto fortemente voluto da Pechino che, se concluso con successo, porterà alla creazione dell’accordo commerciale più ampio mai siglato prima, rispondendo al modello concorrente proposto da Washington, la Trans Pacific Partnership (TPP), dalla quale il Dragone è stato escluso.
L’Arunachal Pradesh e l’Aksai Chin
L’Arunachal Pradesh, Stato settentrionale dell’India, per Pechino non è altro che il ‘Tibet Meridionale’ (Zangnan) e pertanto farebbe parte della Repubblica popolare. Solo un mese fa, i due Paesi avevano ricordato il 50esimo della guerra sino-indiana, scoppiata nel 1962 proprio per problemi con la linea MacMahon, adottata unilateralmente dall’India nel 1950 come proprio confine. I rapporti tutt’altro che idilliaci si sono ulteriormente raffreddati a partire dal 2009, anno in cui Pechino cominciò a rilasciare visti su ‘pezzi di carta volanti’ ai residenti del Jammu Kashmir, Stato nord-occidentale del subcontinente indiano, bypassando le istituzioni locali. Una regione, quest’ultima, rivendicata anche dal Pakistan e teatro di insurrezioni separatiste da più di due decenni, che per Delhi rappresenta un nervo sensibile quanto il Tibet per Pechino. Al contrario l’Aksai Chin è, insieme alla valle Shaksgam, una delle due aree del Kashmir amministrata dalla Cina il cui possesso viene rivendicato dall’India.
Sul fronte marittimo le cose non vanno molto meglio, con il crescendo dei sospetti che Delhi stia cercando di ostacolare la sovranità reclamata da Pechino su quasi tutto il Mar Cinese Meridionale; secondo l’Economist, un campo di battaglia più probabile di quanto non lo siano le regioni Himalayane. Nell’ottobre 2011, l’India ha accettato l’invito del Vietnam per intraprendere esplorazioni congiunte nelle acque contese, ricche di gas e risorse naturali. E nonostante le minacce di Pechino, il cugino asiatico non sembra essersi fatto intimorire. Durante il Forum Regionale dell’Asean tenutosi a Phnom Penh lo scorso luglio, Delhi ha presentato forti argomentazioni per sostenere non solo la libertà di navigazione ma anche l’accesso alle risorse, in accordo con i princìpi del diritto internazionale.
Taiwan
La mappa ‘estesa’ emessa da Pechino non è andata giù nemmeno a Taipei, per il Dragone provincia ribelle in attesa di essere riannessa alla madrepatria, che avanza una sovranità territoriale nella regione quasi identica a quella cinese. Sui nuovi passaporti compaiono, infatti, anche il Sun Moon Lake e le scogliere Chingshui, note attrazioni turistiche dell’isola. Ma se la mossa del gigante asiatico è stata avvertita come un fallo a gamba tesa dalla Repubblica di Cina (ROC), d’altra parte, la posizione di quest’ultima è più complessa rispetto a quella degli altri attori della regione, inferociti per l’ennesima alzata di testa di Pechino. Mentre le controversie con Vietnam, Filippine, India , Brunei e Malaysia riguardano solo sovrapposizioni territoriali, nel caso dell’ex isola di Formosa la Cina avanza la propria sovranità su tutto il territorio nazionale. Rispondendo lunedì alla reazione stizzita di Taipei, l’Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato ha ribadito che c’è ‘una sola Cina‘ e che le proteste hanno lo scopo di ‘suscitare polemiche‘, rischiando di compromettere le relazioni tra le due sponde. Se Hanoi e Delhi saranno libere di stampare una propria cartina, a Taiwan ci penseranno due volte, sotto l’amministrazione dell’attuale presidente Ma Ying-jeou, in carica dal 2008 e artefice di un netto miglioramento delle relazioni con Pechino. Secondo nti nell’area, gli <strongat”, la ROC accetterà il nuovo passaporto per la pace dello Stretto: una mossa che Pechino potrebbe interpretare a proprio favore, come un tacito riconoscimento di ‘una sola Cina’.