La metafisica della carne
Sarà anche morto da vent’anni, ma Francis Bacon è più vivo di tanti che lo sono davvero
di Alessia Signorelli
Non c’è cosa più difficile (e peggiore) della celebrazione postuma di un artista, specie se quest’ultimo è stato annoverato in vita tra quelli “scomodi”. Il problema dell’arte contemporanea affonda le sue radici nella nascita della borghesia come la intendiamo, spuntata fuori con protervia, con le sue regole ed i suoi codici, in quell’Ottocento ipocrita e schizofrenico che tante pagine ha riempito e continua a riempire. E poi, c’è sempre il solito problema della “romanticizzazione”. Non se ne esce.
Sono passati già vent’anni, anzi, tra poco, ad aprile 2013, saranno già ventuno, da quando, un bel giorno, Francis Bacon, quasi sicuramente il più grande artista mai nato in Irlanda, se n’è andato, per un attacco cardiaco, mentre era a Madrid, dove viveva il suo giovane amante spagnolo.
Francis Bacon era, o meglio, è colui che ha rivoluzionato, senza ombra di dubbio, la pittura occidentale del dopoguerra. Sue sono quelle tele che inglobano al tempo stesso la violenza, l’orrore della macellazione dell’animo suggerita, e quindi ancora più sconvolgente, e la più alta pietà mai concepita dall’uomo, nel mostrare quello che la nostra “carne” è, scoperta, vulnerabile, contorta, spingendoci dentro l’ineluttabile assurdità della vita e della morte, talmente vicine da creare una grottesca creatura bicefala.
L’uomo così fuori come dentro. Francis Bacon, il grande “distruttore”, la cui pittura si dispiegava nell’ambito dell’innocenza più totale (proprio perché realizzata attraverso la brutalità dell’effige e dei colori usati), fermamente ancorata nell’emozione, nel “non-mediato”, nell’impatto primario, è celebrato e raccontato sia in Australia che in Italia.
“Five Decades” (Cinque Decadi), la prima mostra, per importanza, in Australia, incentrata sulle opere meno conosciute di Bacon (con la presenza, però, anche di alcuni dei suoi famosi trittici), vuole raccontare, appunto, le cinque decadi della carriera dell’artista, uomo dallo spirito tagliente, dotato di una mente squisita, così onesto, così “artista”, da risultare difficile da “buttar giù” anche a molti suoi colleghi; e lo fa attraverso cinquanta dipinti provenienti da trentasette collezioni diverse (con l’immancabile prestito del Museum of Modern Art di New York). Fino al ventiquattro febbraio, presso il Museum of Contemporary Art Australia (MCA), all’interno del Sydney International Art Series.
Nel nostro Paese, ci ha pensato la Strozzina, Centro di Cultura Contemporanea di Palazzo Strozzi, a Firenze, con un “esperimento” che vede il suo punto di partenza in otto opere di Bacon (tra le quali un ritratto, incompiuto, ritrovato a Londra, poco dopo la sua morte, al quale stava lavorando poco prima di lasciare questo mondo strano e distorto), insieme ad altri “reperti”, poste a dialogare con i lavori di cinque diversi artisti internazionali (Nathalie Djuberg, Adrian Ghenie, Arcangelo Sassolino, Chiharu Shiota, Annegret Soltau), andando a creare un confronto “corale”, fatto di dipinti, installazioni site specific, fotografi e video.
Si intitola “Francis Bacon e la condizione esistenziale dell’arte contemporanea”, curata da Fransizka Nori (direttore CCC Strozzina) e da Barbara Dawson (direttore del Dublin City Gallery The Hugh Lane, Dublino), ha già aperto i battenti, ma sarà visitabile fino al ventisette gennaio. Cinque artisti contemporanei, tutti diversi tra loro, sia nella sensibilità, che nella scelta del medium espressivo, ma “raccolti” sotto il tetto dell’assimilazione della lezione immortale di Bacon.
Non è solo pittura, quella di Bacon, ma si tratta di filosofia su tela, di una “visione complessiva del mondo” ritratta, masticata, frullata, rigurgitata tra colori e contorsioni.Carne e spirito mostrati, tanto potenti da superare ed oltrepassare in tutta gloria il concetto di “brutto”, di “spiacevole”.
Ecco, dove giace, alla fine, l’estrema contemporaneità di un artista come questo signore irlandese, dalla vita personale tormentata, quasi un romanzo (ebbe cinque storie d’amore “importanti”; tra i suoi amori, tutti al maschile, ci fu anche George Dyer, che morì suicida, nel 1971, alla vigilia di un’importante esposizione di Bacon al Grand Palais di Parigi).
Un uomo dalla purezza totale, non adulterato dall’ accademismo, dallo studio sistematico, “universitario” della pittura. In lui, la spontaneità assumeva la sfumatura dell’imprescindibile, del vitale, della riflessione sulla condizione umana.
Per Bacon, il caos era portatore di immagini, così come certa letteratura, certa poesia, come i grandi classici greci, o come Proust, da lui definito un “chirurgo” della parola, come ebbe a raccontare a Franck Maubert, in una delle loro interviste, durante gli anni Ottanta.
Ed eccola, la modernità, l’eternità di Bacon, cercata e illustrata alla Strozzina e al MCA, in Australia, quel quid che sembra mancare in una buona parte delle “nuove leve” dell’arte contemporanea, atrofizzati nello studio, sovraccaricati di accademie.