Il gap tra ricchi e poveri spaventa Pechino
La ricchezza cinese è sempre più concentrata in pochissime mani: un rischio enorme per l’ordine nel Paese
di Alessandra Colarizi
In Cina la forbice tra ricchi e poveri ha superato la soglia di rischio. Lo rivela una ricerca pubblicata lo scorso 9 dicembre dal Centro Ricerche e Statistiche di China Household Finance, promossa dall’Istituto di Ricerche Finanziarie di People’s Bank of China e dalla Southwestern University. Effettuato su 8.438 famiglie, lo studio mostra un coefficiente di Gini – che misura la diseguaglianza del reddito – allo 0,61 nel 2010, con uno 0,56 per i residenti urbani e gli abitanti delle zone rurali che si attestano allo 0,60.
Il coefficiente di Gini calcola il divario di ricchezza su una scala da 0 a 1. Maggiore è il valore, maggiore è l’ineguaglianza tra i redditi. Normalmente un indice al di sopra dello 0,4 contrassegna una forte disuguaglianza; quando arriva a 1, indica che tutte le ricchezze sono nelle mani di una sola persona. La totale riserbatezza adottata da Pechino sulla questione non consente di effettuare un confronto con i dati ufficiali, ma per avere un’idea basta considerare che la media di tutti i Paesi monitorati dalla Banca Mondiale (BM) nel 2010 si è attestata sullo 0,44.
Sempre la BM nel 2005 aveva stimato l’indice per la Cina al 42,48, in questo caso riferendosi ad un scala di valutazione tra 0 e 100. Quanto a Pechino, nasconde i propri numeri dal 2000, quando il coefficiente si piazzò allo 0,412, anche se lo scorso marzo l’ex segretario di Chongqing, Bo Xilai, aveva rivelato una leggera lievitazione sino a 0,46. Nel 2011 l’Ufficio nazionale di Statistica si era tenuto sul vago, accennando ad un leggero aumento del gap tra ricchi e poveri rispetto all’anno precedente, senza rivelare le cifre esatte.
Negli ultimi venti anni il coefficiente di Gini è cresciuto nel Regno di Mezzo più che in qualsiasi altra nazione asiatica, aveva fatto notare a febbraio Murtaza Syed, rappresentante del Fondo Monetario Internazionale in Cina. All’inizio del 2012 il Centro di Ricerca e Statistiche aveva evidenziato che il 57% di tutto il reddito disponibile è detenuto dal 10% delle famiglie cinesi. A livello regionale, secondo il rapporto, l’indice è più alto nei luoghi soggetti a forte concorrenza di mercato. Il reddito complessivo di tutte le famiglie residenti nelle provincie orientali è risultato circa 2,7 volte quello degli abitanti nelle regioni dell’ovest e del centro del Paese, come sottolinea la rivista economica cinese Caixin.
A fare luce sul divario tra famiglie urbane e suburbane sono soprattutto i redditi pensionistici. Nel 2010 solo il 34,5% della popolazione rurale ha beneficiato dell’assicurazione per la vecchiaia, ricevendo 12 milioni di yuan all’anno (poco meno di 2 milioni di dollari), contro l’87% delle città per le quali è stato stanziato un budget annuo di 33 milioni di yuan (circa 5 milioni di dollari). Il rapporto suggerisce che rafforzare i sussidi alle famiglie a basso reddito potrebbe aiutare nel breve periodo a ridurre le disparità.
“In Cina il gap tra provincie, diversi settori, città e campagne è talmente predominante da rendere impossibile ipotizzare un calo del coefficiente di Gini in tempi brevi” ha spiegato Gan Li, direttore del Centro Ricerche e Statistiche, il quale ha anche sottolineato come il problema non potrà essere risolto soltanto attraverso le forze di mercato. Urge, piuttosto, “cambiare la struttura della distribuzione del reddito, basandosi su massicci trasferimenti fiscali“.
Maggiori entrate fiscali e una quota più rilevante dei profitti delle imprese statali “potrebbero fornire al governo circa 3,8 trilioni di yuan (610 miliardi di dollari) all’anno da spendere per la redistribuzione del reddito.” Nel lungo periodo “la Cina ha bisogno di rinforzare i finanziamenti per l’istruzione e ridurre le disuguaglianze di opportunità per diminuire il divario reddituale“. D’altra parte, “un alto coefficiente di Gini è molto comune nei processi di sviluppo rapidi” ha aggiunto Gan.
Nella sua relazione, il Centro Ricerche e Statistiche ha inoltre fatto luce su un preoccupante incremento del tasso di disoccupazione nei centri urbani, passato dall’8% del luglio 2011 all’8,05% dell’anno in corso; circa il doppio rispetto al 4,1% dichiarato dal governo cinese a settembre, valore di poco inferiore al 4,3% riscontrato nel 2009, al culmine della crisi finanziaria mondiale. Ancora più allarmante la situazione dei migranti senza lavoro – estromessi dalle valutazioni ufficiali che risultano pertanto sottostimate – saliti dal 3,4% del luglio 2011 all’attuale 6%.
Una bella gatta da pelare per Pechino, che si era riproposto di mantenere il tasso di disoccupazione al 4,6% nel 2012. Giusto nelle scorse settimane l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico aveva rivisto al ribasso le stime per la crescita del 2013 e del 2014. Ad incidere sulla revisione proprio il tasso di disoccupazione, oltre all’andamento poco incoraggiante dell’export cinese che risente della crisi della Eurozona e della stagnazione Usa.
L’allargamento della forbice tra ricchi e poveri rischia di alimentare il malcontento di chi sospetta che i benefici dell’iperbolica crescita economica degli ultimi dieci anni siano andati a gonfiare le tasche dei soliti noti. Le conseguenze potrebbero essere disastrose, alla luce della crescente insofferenza manifestata dal popolo nei confronti della corruzione e dell’ingiustizia dilaganti tra i ranghi del Partito comunista cinese. Situazione alla quale dovrà far fronte Wang Qishan, nominato capo della commissione per la disciplina in seguito al turnover politico sancito dall’ultimo Congresso del Pcc. Secondo Sun Liping, professore di sociologia presso l’Università Tsinghua di Pechino, gli ‘incidenti di massa‘ – termine con il quale Pechino etichetta scioperi, tumulti e proteste varie – sarebbero raddoppiati tra il 2006 e il 2010, raggiungendo almeno quota 180 mila.
In un rapporto di gennaio la Banca Mondiale aveva posto la riduzione delle ineguaglianze sociali in cima all’agenda della nuova leadership del Dragone. Lo stesso presidente in pectore Xi Jinping al suo debutto da Segretario generale aveva posto l’accento sul problema, facendo un uso generoso delle parole “popolo” e “corruzione” nel suo discorso in chiusura del XVIII Congresso.
Il nuovo modello di sviluppo delineato nell’11° Piano quinquennale (2006-2011) doveva comprendere una riduzione del divario reddituale tra città e campagna, nonché una ristrutturazione delle istituzioni sociali nelle aree rurali. In generale, il progetto prevedeva la ricostruzione del sistema di welfare andato in pezzi durante il processo di riforma economica cominciato alla fine degli anni ’70. L’amministrazione Hu Jintao-Wen Jiabao, dal canto suo, ha provveduto al supporto dell’istruzione primaria rurale, intraprendendo i primi passi verso un sistema di assistenza sanitaria pubblica nelle campagne, il tutto grazie ad un sostanzioso aumento delle risorse allocate alla creazione del welfare (con budget per i servizi sociali più che raddoppiato nel periodo 2005-2010).
D’altra parte, l’innegabile discrepanza tra gli obiettivi inseriti nei piani di sviluppo e gli strumenti a disposizione si è tradotta in uno scollamento crescente tra quanto promesso dal governo è quanto alla fine realizzato. Da non sottovalutare gli effetti di un potere statale fortemente centralizzato: le decisioni di natura economica sono sostanzialmente nelle mani di chi controlla le risorse economiche del Paese, in un conflitto d’interessi che stritola qualsiasi ‘democratizzazione economica’ e un modello di crescita maggiormente inclusivo. Più welfare e meno slogan vuoti è quanto dovrà somministrare la nuova dirigenza per sanare una delle piaghe più dolenti del Dragone.
Sempre più spesso il legame indissolubile tra grandi conglomerati statali e organi politici è fonte di insoddisfazione popolare, ma anche spunto di riflessione e dibattito tra l’intellighenzia del gigante asiatico. Lo scorso anno il Quotidiano del popolo, ‘lingua e gola’ del Partito, ha ospitato sulle sue colonne un coraggioso editoriale a firma di Cui Peng: “L’irrazionalità estrema del sistema di distribuzione del reddito non solo ha prodotto il particolare fenomeno di un ‘paese forte fatto di povera gente‘, ma ha fatto sì che tutta una serie di importanti misure essenziali alla trasformazione del modello di sviluppo, come l’ampliamento della domanda interna, siano diventati meri simulacri” scrive Cui.
“In questo senso ci troviamo davanti ad una sfida oggi simile a quella che abbiamo affrontato trent’anni fa all’inizio della riforma: se vogliamo che lo sviluppo continui, allora è essenziale eliminare dal sistema i difetti e le istituzioni che si sono stratificate in un periodo di tempo molto lungo e dobbiamo essere pronti anche ad affrontare alcuni gruppi di pressione, le cui radici sono molto profonde“.