Il Tetto del Mondo continua a bruciare (Prima parte)
Il Tibet è in fiamme: le proteste dei suoi abitanti contro il regime cinese si spingono fino all’auto-immolazione
di Alessandra Colarizi
300 televisori confiscati ai principali monasteri tibetani delle regioni occidentali della Cina e satelliti, responsabili di diffondere programmi ‘anti-cinesi’, smantellati. Sono le ultime misure adottate dal governo di Pechino per mettere un punto alla interminabile sequela di auto-immolazioni che stanno funestando l’altopiano del Tibet.
Sono quasi 100 i tibetani che hanno scelto la via del suicidio per protestare contro il “genocidio culturale” messo in atto dal regime cinese, 81 soltanto nell’ultimo anno. Cinque delle auto-immolazioni sono avvenute nella prefettura di Huangnan, provincia del Qinghai, come riportato dall’agenzia di stampa locale il 27 dicembre.
“E’ un momento particolarmente critico per il mantenimento della stabilità sociale nella prefettura di Huangnan” scandisce l’articolo “dobbiamo inasprire le misure e combattere fermamente la battaglia contro le auto-immolazioni“, aumentando i pattugliamenti e “bloccando le informazioni dannose“. Sempre secondo il rapporto, le aree agricole e pastorali della prefettura avrebbero fatto ricorso ad alcune attrezzature satellitari per “guardare e ascoltare programmi d’oltremare anti-Cina“. Ragione per la quale il governo locale ha intenzione di investire 8,64 milioni di yuan (1,39 milioni di dollari) nell’istallazione di 50 trasmettitori che diffonderanno il 70% dei canali televisivi della prefettura. Le autorità, contattate telefonicamente dalla Reuters per una conferma, avrebbero detto di “non saperne nulla“.
Il Partito comunista cinese le sta provando tutte: da punizioni per le famiglie dei manifestanti e promesse di ricompense economiche per chi fornisce informazioni utili a prevenire altri suicidi, ad una nuova ondata di arresti. Chiunque inciti i tibetani all’auto-immolazione sarà perseguito per omicidio intenzionale, ha sentenziato all’inizio di dicembre la corte suprema cinese, ripresa dal quotidiano statale Gannan Daily.
Ad agosto il monaco 40enne Lorang Konchok del monastero di Kirti, nella contea di Aba (provincia meridionale del Sichuan), e suo nipote Lorang Tesring sono finiti in manette con l’accusa di aver incitato altre persone a darsi fuoco. Come pare abbia confessato alla polizia Lorang Konchok stesso, i due avrebbero agito su istruzione di Tenzin Gyatso, il Dalai Lama, e dei suoi seguaci. La notizia dell’arresto è giunta soltanto lo scorso mese.
Il 13 dicembre è stata la volta di altri cinque tibetani della regione di Zeku, nella provincia cinese del Qinghai, mentre tempo prima otto alunni della scuola media di Gonghe sono stati condannati a cinque anni di prigione per aver partecipato ad una manifestazione contro il regime, scatenata dall’ennesima auto-immolazione. Nel tritacarne di Pechino finiscono senza eccezione attivisti, monaci, studenti e poeti schierati.
E’ dal febbraio 2009 che una lunga scia di fuoco percorre le provincie cinesi del Gansu, Yunnan, Qinghai e Sichuan, tutte caratterizzate da una forte presenza tibetana. Il monaco di Kirti Tapey rimane l’unico caso per due anni, poi i numeri cominciano a salire rapidamente e le proteste si estendono oltre la Grande Muraglia. A marzo una torcia umana si accende in India. Il 27enne Jamphel Yeshi si dà fuoco a Nuova Delhi in concomitanza con la visita del presidente cinese uscente Hu Jintao, giunto nella città indiana per il quarto vertice dei BRICS. Poi lo scorso maggio le auto-immolazioni raggiungono per la prima volta Lhasa, capitale della Regione Autonoma del Tibet, fin dal 1750 direttamente o indirettamente controllata dalla Cina.
30 sono i suicidi tra novembre e dicembre 2012, di cui 4 soltanto il 7 dello scorso mese, vigilia del decennale ricambio al vertice sancito dal XVIII Congresso del Partito. In termini statistici si tratterebbe di un’auto-immolazione al giorno. A scegliere la morte per autocombustione sopratutto ragazzi sotto i trent’anni; 13 le donne. I loro nomi sono riportati in una lunga lista pubblicata sul sito di International Campaign for Tibet (ICT).
Spesso ci si chiede se le auto-immolazioni tibetane siano un rituale religioso o una protesta politica – scriveva a luglio sul Washington Post Lobsang Sangay, Primo Ministro del governo tibetano in esilio – senza capire che è a causa della negazione del diritto a mettere in atto forme di rimostranza meno estreme che i tibetani scelgono l’autocombustione. “Abbiamo più volte chiesto al nostro popolo di non ricorrere a gesti tanto drastici come le immolazioni, ma il fenomeno continua anche oggi” ha affermato il capo del governo di Dharamsala.
Sebbene il Paese delle Nevi sia soggetto a politiche repressive da diverse decadi, dopo la rivolta del 2008 il processo di sinizzazione forzata è stato esteso in maniera più massiccia in tutte le aree tibetane. La perdita della propria identità culturale è una vera minaccia per le provincie occidentali della Cina, nelle quali il governo di Pechino sta tentando di cancellare qualsiasi nicchia di “tibetanità”.
Dal 1959, anno dell’occupazione politica e militare del Tibet da parte del Pcc, il Dalai Lama vive in esilio a Dharamsala, nel nord dell’India. Pechino si è annessa le aree tibetane nel 1950 portando avanti quella che definisce una “campagna antifeudale” con lo scopo di liberare il popolo tibetano dalla servitù della gleba, istituto giuridico al tempo in pieno vigore e ampiamente adottato anche all’interno dei monasteri. Una certa forma di autonomia, sancita da un accordo in 17 punti, è stata sconfessata da entrambe le parti dopo la grande rivolta anti-cinese del ’59, repressa nel sangue dalle truppe di Pechino.
Dopo la fuga in India di Tezin Gyatso e del suo governo, ha fatto seguito l’occupazione integrale del Tibet da parte della Cina con conseguente dichiarazione di illegalità del governo tibetano. E sebbene nel 2011 il Dalai Lama abbia rinunciato al suo doppio status politico e religioso, conservando esclusivamente il ruolo di guida spirituale, per Pechino questi non è altro che un “lupo travestito da agnello” e “Lhasa è la città più felice della Cina“.
L’ammissione nel 1998 di aver ricevuto finanziamenti dalla CIA, che sostenne con tonnellate di armi la guerriglia contro l’invasione comunista, fa di Tezin Gyatso una Santità apparente, come tendono a rimarcare i suoi detrattori.
Con Tezin Gyatso ormai ultrasettantenne, il problema della successione si fa sempre più pressante. Secondo una legge varata dal governo cinese, le reincarnazioni dei Lama devono essere approvate dall’Ufficio per gli Affari Religiosi di Pechino. Con l’Ordinanza N°5 dell’ottobre 2007 il Pcc si è arrogato il diritto di nominare tutti i futuri “Buddha viventi”. Il bambino scelto dagli emissari di Dharamsala quale reincarnazione del Panchen Lama, la seconda carica lamaistica più importante, fu arrestato all’età di sei anni e portato via dalle autorità cinesi nel 1995. Al suo posto il regime pose il proprio Panchen Lama: il figlio di influenti funzionari di Pechino nominato nel 2010 membro della Conferenza politica consultiva del popolo.
(continua)