Django Unchained: Tarantino a briglia sciolta
Lo “spaghetti-western” cavalca i temi della schiavitù e del razzismo in un melting pot cinematografico surreale, anzi.. epico!
di Valentina Palermi
Chi riesce a vedere in questo (capo)lavoro di due ore e quarantacinque minuti solo un omaggio al film di Sergio Corbucci del 1966 dovrebbe forse ri-aprire gli occhi sul mondo, sulla politica, sull’arte e sulla cultura. Perché nonostante l’ambientazione e le pistole più veloci del West, condite dagli immancabili bagni di sangue tarantiniani, Django Unchained è un miscuglio – ordinato? – di tributi a personaggi iconici e generi cinematografici (dal profilo Jigeniano dell’eroe, alle mosse di kung fu, fino alle romantiche ombre di “Via col vento”), alle crude lotte razziali e surreali riferimenti mitologici, alla musicalità delle parole e degli accenti e alle sonorità rap e morriconiane.
L’anteprima è andata in scena lo scorso venerdì 4 gennaio a Roma, con un film proiettato piacevolmente – e sorprendentemente – in lingua originale, con sottotitoli in italiano, distribuito da Warner Bros. Come Franco Nero nell’originale trascinava una cassa da morto, nella scena iniziale gli schiavi/morti viventi in catene vengono trainati per il deserto dai loro carcerieri, un dondolío accompagnato dal tema di Luis Bacalov, preludio di una soundtrack spettacolare.
Tra di loro Django (Jamie Foxx), “libero” grazie all’intervento del Dottor King Schultz (Christoph Waltz, già perfido nazista in Inglourious Basterds), teutonico ed impettito ex dentista/ora cacciatore di taglie, che rispecchia coi suoi abiti taylor-made una mira precisa e un eloquio raffinato – e piuttosto tagliente -.
Data la libertà al suo valletto, ora si sente responsabile per lui. Insieme, somewhere nel Far West, due anni prima dello scoppio della Guerra Civile, danno quindi il via ad un road movie dal sapore epico, lungo un inverno.
Per il nostro protagonista, fiero in sella al suo ronzino [Ah, in realtà quello montato da Foxx è suo. E lo stile del cavaliere? Quasi impeccabile direi!], un “percorso di formazione” battuto tra la terra arida e rossa, oppure in paesaggi candidi e innevati, dai ritmi incostanti determinati da flashback dell’anima, animaleschi rap e corse rocambolesche che lasciano senza fiato.
Come un novello Sigfrido alla ricerca della sua Broomhilda (von Shaft, impersonata da Kerry Washington), affronta la carica a cavallo di demenziali “valchirie” incappucciate, guidate da Mister Bennett (alias Don Johnson), un gentiluomo del Sud – ma tutt’altro che cortese -.
Un crescendo di violenza e un gran numero di cervella saltanti fanno saltare il pubblico sulle poltrone, animando il viaggio di Django e dell’ex dentista Schultz verso Candyland, la fattoria dello schiavista Calvin Candie (Leonardo DiCaprio), in una continua lotta personale, per il primo, e di principi, per il secondo. Con la sua crudezza, Tarantino vuole fermare il tempo, parlando senza ipocrisia di schiavitù e razzismo, argomenti che un tempo non ce l’hanno: gioca con la telecamera, vuole catturare dicotomie, cambi di scena e di musiche, congelando il dolore e la rabbia dei protagonisti.
Ma “EVERYBODY CALM DOWN!”. Il regista non manca di stampare ghigni ironici sui volti degli attori e anche su quelli di ogni singolo spettatore, che sembra fare eco all’epicureo Monsieur Candie. Proprio come lo scorbutico Stephen (un irriconoscibile Samuel L. Jackson), anziano e furbissimo capo degli schiavi della grande tenuta, fedele braccio (o sarebbe meglio dire spietata mente?) per i propri padroni.
Ironico e dissacrante, un Tarantino esplosivo nel vero senso del termine, che strappa pensieri, nostalgia, sorrisi e applausi ad un pubblico che sembra dire “prima avevate la mia curiosità, ora avete la mia attenzione”.
Personalmente, nessuno finora è riuscito a strappare dalla mia bocca (e dalle mie dita) i profondi segreti di questo film. Quindi se proprio volete scoprirli muovetevi e andate a vedere al cinema Django Unchained a partire dal 17 gennaio 2013.
Amen!
Una risposta
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