Il dilemma petrolifero
E’ da anni noto che il sottosuolo italiano è ricco di giacimenti petroliferi non sfruttati. Ecco il riassunto di una vicenda complessa
di Andrea Ranelletti
E’ stato sufficiente un articolo pubblicato lo scorso 3 gennaio da Luigi Grassia sulla «Stampa» a riavviare le annose discussioni riguardanti il possibile sfruttamento di ampi giacimenti petroliferi presenti sotto il suolo italiano. L’opinione pubblica nazionale, tradizionalmente soggetta al fascino dei dibattiti tranchant, s’è divisa come da abitudine in due fronti opposti, pronti a darsi battaglia. Da una parte si schierano quei geologi che da anni sostengono che nessun danno al terreno potrebbe essere provocato da uno sfruttamento responsabile dei giacimenti; dall’altra il parere di chi paventa la possibilità di un aumento dei rischi geologici, oltre agli inevitabili danni causati all’ambiente nelle aree soggette alle trivellazioni.
I fatti rivelano una realtà complessa: nonostante l’abbondanza di riserve presenti nel sottosuolo italiano non abbia pari nel resto dell’Unione Europea, l’Italia è fortemente dipendente dall’importazione di petrolio per soddisfare il proprio ingente fabbisogno energetico. Il discorso si fa ancora più spinoso se si considera la povertà di alcune delle aree che dispongono di gran parte delle riserve non sfruttate (Basilicata, Calabria e Sicilia in primis). Mario Monti tentò di invogliare questi territori creando un apposito articolo nel decreto liberalizzazioni che portava a ridistribuire parte dei proventi delle trivellazioni nelle casse delle regioni penalizzate.
Nel suo articolo Grassia riferisce i dati contenuti nel piano della SEN (Strategia Energetica Nazionale), il programma che indica quale politica energetica dovrà seguire l’Italia nel prossimo futuro: un investimento che raddoppi l’estrazione di petrolio e gas naturale entro il 2020 genererebbe un introito nelle casse statali pari a 5 miliardi di euro annui, circa un punto di Pil. L’Italia spende oggi 64 miliardi di euro l’anno per sopperire alle proprie esigenze energetiche: un raddoppiamento della produzione interna avrebbe effetti balsamici sulle casse statali. Non vanno inoltre trascurati i 25mila posti che verrebbero creati nel corso dei lavori.
Nonostante i numeri siano allettanti, rimane strenua l’opposizione ai progetti. Il timore principale degli abitanti delle aree interessate è quello della subsidenza, ovvero il progressivo abbassamento del suolo nelle aree trivellate, destinato ad accrescere il rischio di cedimenti. Nei giorni del terremoto in Emilia molti puntarono il dito contro le trivellazioni esplorative condotte in varie zone della regione (in particolare con la controversa tecnica della fratturazione idraulica o fracking), ritenendole colpevoli d’aver generato il sisma. Nonostante la mancanza di effettivi riscontri renda tali ipotesi opinabili, esse rimangono specchio e indice di una comune diffidenza nei confronti delle trivellazioni.
L’importanza e la delicatezza della posta in palio inquina un dibattito complesso e destinato a non sbloccarsi nel futuro prossimo. L’annosa contrapposizione tra l’interesse nazionale e la legittima preoccupazione delle comunità regionali e locali si ripropone . Un confronto maturo tra istituzioni e cittadini imperniato sulla necessità di rassicurazione sulle modalità attraverso cui verrebbe attivato l’eventuale sfruttamento dei giacimenti può essere un primo passo per sbloccare un impasse futile e controversa.
(fonte immagine: www.borsaforex.it )
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