Il tetto del mondo continua a bruciare (Seconda parte)

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Sempre più abitanti del Tibet decidono di ardere vivi per i loro diritti: una dolorosa spina nel fianco per il regime cinese

di Alessandra Colarizi

Foto commemorative di alcuni monaci tibetani bruciati vivi (Fonte immagine: http://giacomofidelibus.files.wordpress.com)

Foto commemorative di alcuni monaci tibetani bruciati vivi (Fonte immagine: http://giacomofidelibus.files.wordpress.com)

I controlli a tappeto, soprattutto in concomitanza con alcune date sensibili come l’anniversario della rivolta del 2008 e della fuga del Dalai Lama, tradiscono una malcelata irrequietudine. Nonostante il governo cinese si ostini a nascondere la testa sotto la sabbia, la questione delle auto-immolazioni continua a rappresentare per il gigante asiatico una dolorosa spina nel fianco. Nonché una pesante ipoteca sul futuro lasciate in eredità dalla vecchia amministrazione alla nuova leadership guidata da Xi Jinping.

Fu proprio Hu Jintao, divenuto nel 1988 segretario del partito della Regione Autonoma del Tibet, a decretare la legge marziale a Lhasa dopo le proteste dell”89. Nel corso degli anni, la repressione poliziesca è rimasta il modus operandi privilegiato dal presidente uscente nelle aree tibetane.

In un’intervista alla Reuters risalente ad alcuni mesi fa, il Dalai Lama aveva parlato di “segni incoraggianti” riferendosi ai nuovi “timonieri” che assumeranno ufficialmente le redini del Paese il prossimo marzo. Grandi attese sono riposte nella figura di Xi Jinping, figlio di Xi Zhongxun, combattente comunista di ispirazione liberale, noto per il suo approccio meno intransigente verso il Tibet.

Alla vigilia del nuovo anno, il premier Wen Jiabao si è recato per la terza volta nella prefettura autonoma di Yushu, nel Qinghai, colpita nel 2010 da un terremoto che ha fatto almeno 2.700 vittime. Qui Wen, che presto passerà il testimone a Li Keqiang, avrebbe incitato i monaci del posto a conservare la loro purezza e a “costruire un’immagine sociale positiva“. Secondo molti, un ultimo gesto di umanità volta a trasmettere ai posteri l’immagine di primo ministro “vicino al popolo”, obiettivo perseguito durante tutto il suo mandato.

Il fenomeno delle auto-immolazioni non è esattamente una novità in Cina. Circa dieci anni fa la setta della Falun Gong, che vanta circa 100 milioni di seguaci, aveva tentato di umiliare il regime con una serie di suicidi in piazza Tian’anmen, il centro politico di Pechino. Al tempo le immolazioni religiose infastidirono gran parte della popolazione, grazie anche alla campagna lanciata dal Partito per demonizzare il movimento.

Oggi invece l’ondata di suicidi sembra aver accentuato la solidarietà tra i tibetani. Secondo fonti di Dharamsala, recenti manifestazioni in memoria dei martiri “nemici di Pechino” avrebbero visto la partecipazione di circa 6.000 persone (numeri ridimensionati a 4.000 da Radio Free Asia). Persino nella Repubblica popolare qualcuno ha cominciato a rompere il silenzio. Oltre all’artista-dissidente Ai Weiwei, l’avvocato democratico Xu Zhiyong, in un editoriale pubblicato alcune settimane fa sul New York Times, si è schierato a favore della causa tibetana definendosi dispiaciuto perché troppo a lungo i cinesi hanno taciuto mentre i fratelli tibetani muoiono per la libertà.

Ora ciò a cui si trova a dover far fronte Pechino (e in particolare il weiwen, l’apparato di sicurezza interna) è la rapidità con la quale le informazioni scorrono sul filo del web. Scambio di notizie tra il Tetto del Mondo e l’esterno – ma anche tra i tibetani sul posto – e foto di corpi avviluppati dalle fiamme rimbalzano sulla Rete a poche ore dall’accaduto, bucando la censura.

I panni sporchi si lavano in casa

Nel corso di un forum online con gli Usa, lo scorso ottobre l’ambasciatore americano Gary Locke ha chiesto ancora una volta a Pechino di riesaminare “le politiche che hanno condotto alle restrizioni applicate ai tibetani“. Proprio in quei giorni il numero uno della diplomazia Usa in Cina era stato immortalato in compagnia di un monaco nella prefettura di Aba, dove nel 2009 avvenne la prima autocombustione. Alla foto, finita sul New York Times, ha fatto seguito l’immancabile bacchettata di Pechino: “Ci opponiamo a qualsiasi tipo di ingerenza statunitense negli affari interni cinesi“, ha commentato Hong Lei, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino.

Per il Partito la questione tibetana continua ad essere avvertita come un problema di sovranità territoriale e pertanto qualsivoglia riferimento ai diritti umani viene ritenuto inconsistente. Mentre a novembre nella capitale cinese si svolgeva il fatidico Congresso, il Dalai Lama volava in Giappone, storico nemico del Dragone, suscitando ancora una volta le ire del Pcc. “Traditore e strumento nelle mani della destra giapponese” è l’epiteto affibbiato a Tezin Gyatso dal quotidiano China Daily, a cui sono seguite le dichiarazioni ufficiali di Hong Lei che ancora una volta ne ha sottolineato la natura reazionaria. E se tra Sol Levante e Impero Celeste ci sono di mezzo le Diaoyu/Senkaku, le isole della discordia, la guida spirituale tibetana – secondo la stampa cinese – è una pedina manipolata da Tokyo per ottenere il sostegno internazionale nella controversia.

In passato le visite del Dalai Lama hanno fatto schizzare la colonnina di mercurio dei rapporti diplomatici tra Cina e diversi Paesi occidentali quali Francia, Stati Uniti e Inghilterra. Nel 2008 l’incontro tra Tezin Gyatso e l’allora presidente francese, Nicolas Sarkozy, mise a repentaglio il dialogo e la collaborazione tra Pechino e l’Unione Europea. L’indignazione del Dragone sfociò nella cancellazione unilaterale dell’undicesimo summit Cina-Ue.

Ma nonostante il pugno di ferro adottato dal Partito nelle aree tibetane abbia attirato le critiche dei governi democratici, sono in molti a lamentare l’insufficiente copertura delle auto-immolazioni da parte della stampa internazionale.

Dal 2008 tutto il Tibet geografico, non solo la Regione Autonoma, è chiuso ai giornalisti. Tempo fa Asia Sentinel ha definito le autocombustioni tibetane “un topic da social network“, sui quali sempre più spesso circolano foto e video di corpi carbonizzati. Scarsa, invece, l’attenzione dimostrata dai media mainstream. Forse per mancanza di fonti dirette a causa dell’inaccessibilità di molte zone, forse per paura di pestare i piedi ad una superpotenza che, sebbene criticata quanto a diritti umani, rimane pur sempre un prezioso partner commerciale.

Fattori, questi, che non sembrano aver intimorito iSun Affairs, rivista investigativa con base ad Hong Kong gestita da giornalisti della mainland, la quale il 13 dicembre ha pubblicato un resoconto dettagliato delle auto-immolazioni, riportando la lista completa dei martiri. In copertina l’immagine di un ragazzo che avanza arso dalle fiamme.

Integrare o distruggere ogni alterità

Cosa accomuna tibetani, schiavi d’America e i fuggiaschi nordcoreani? Sicuramente il desiderio di libertà. Cosa li distingue? Un’argomentazione ben articolata di Francesco Sisci, comparsa su Asia Times alcuni mesi fa, fornisce diversi spunti di riflessione sull’argomento. I tibetani – si legge nell’editoriale – non sono liberi quanto i cittadini americani, ma sicuramente lo sono più di quanto non lo fossero gli schiavi dell’Alabama. Non vivono nel lusso, ma non patiscono nemmeno la fame come i nordcoreani. Non cedono alle lusinghe monetarie né cercano una vita migliore, obiettivo che potrebbero raggiungere senza troppe difficoltà oltrepassando il confine e rifugiandosi in India o in Nepal.

Chi ha scelto la morte desiderava qualcosa di diverso: libertà religiosa, il ritorno del loro leader spirituale, una maggior autonomia – in accordo con la “Via di Mezzo” promossa dal Dalai Lama – qualcuno più radicale, forse, l’indipendenza del Tibet. Richieste negate dal governo cinese visibilmente spaventato da un’alterità che avverte come una minaccia. Lo dimostra la politica draconiana adottata nei confronti degli uiguri, popolazione turcofona di religione islamica che vive nella provincia dello Xinjiang, all’estremo Ovest della Cina; per Pechino un’altra alterità da reprimere.

Il tentativo di far sentire i tibetani parte della Cina contemporanea è fallito. In un primo momento,  il Partito comunista riuscì a convincere qualcuno presentandosi come alleato degli strati più poveri contro l’aristocrazia locale e la teocrazia dei Lama. Durante la Rivoluzione Culturale, la battaglia per abbattere la società feudale guidata dalle Guardie Rosse individuava nella lotta di classe il collante ideologico in grado di amalgamare le minoranze etniche al gruppo maggioritario Han, che costituisce oltre il 95% della popolazione cinese. Ma tutto questo non ha esercitato alcuna presa sulle entità aliene da “cinesizzare”.

Oggi, segni contraddittori evidenziano da una parte una crescente simpatia dei cinesi verso la causa tibetana (molte le conversioni degli Han al lamaismo), dall’altra una forte componente nazionalista che avversa qualsiasi concessione territoriale. Allo stesso tempo aumentano le discrepanze tra i tibetani “cinesi” e i loro fratelli di Dharamsala, sempre più distanti per gusti e ambizioni, mentre lo sviluppo dei trasporti e delle telecomunicazioni finanziato da Pechino ha posto fine a centinaia di anni di isolamento, portando l’integrazione della regione himalayana nella Repubblica popolare a livelli mai riscontrati prima.

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