Cina: non respirate, non bevete!
Sale il livello di inquinamento in molte città della più grande potenza economica asiatica. E con esso, il numero di proteste
di Alessandra Colarizi
Basta un giorno senza vento perché Pechino si trasformi in un girone infernale, avvolto da nebbia e smog. L’inquinamento atmosferico nell’ultima settimana ha raggiunto livelli allarmanti. Secondo i dati emessi dal centro per il Monitoraggio Ambientale della capitale, sabato 12 gennaio il PM2,5 (particolato con diametro inferiore ai 2,5 micron, altamente dannoso per la salute) ha raggiunto i 993 microgrammi per metro cubo, un valore 40 volte superiore alla soglia di sicurezza fissata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Diverse scuole chiuse, strutture sanitarie prese d’assalto, con un’affluenza giornaliera di 7.000 persone affette da problemi respiratori nel solo ospedale pediatrico della municipalità: un’Airpocalypse – come è stata ironicamente definita dai corrispondenti stranieri – durata cinque giorni, che non ha risparmiato il resto del Paese. Come dimostra un’analisi congiunta di Asian Development Bank e della rinomata Università Qinghua, nella top ten delle città più inquinate al mondo sette sono cinesi. Oltre a Pechino nella lista nera compaio Taiyuan, Lanzhou, Urumqi, Chongqing, Jinan e Shijiazhuang. Il rapporto evidenzia, inoltre, che solo l’1% di 500 centri urbani presi in esame incontra gli standard dell’OMS.
Ma in Cina, dove la natura viene costantemente violentata e sacrificata sull’altare di un’industrializzazione dissennata, non è soltanto lo stato di salute dell’aria a preoccupare. All’inizio di gennaio Handan, città dello Hebei che conta oltre un milione di abitanti, è rimasta senza acqua corrente. Ben cinque giorni prima, a Changzhi, nella vicina provincia dello Shanxi, una fabbrica di proprietà della Tianji Coal Chemical Industry si era resa responsabile di un grave disastro ambientale: una perdita di 9 tonnellate di anilina – un derivato tossico del benzene usato nei processi di tintura – si era riversata nel fiume Zhuozhang, mentre altre 30 tonnellate erano finite in un serbatoio ormai in disuso dal 1993. Nel fiume le autorità hanno riscontrato valori della sostanza cancerogena circa 720 volte superiori a quanto consentito, ma a Handan, il principale centro urbano più a valle, la sospensione della fornitura d’acqua è stata ordinata soltanto il 5 gennaio.
A piombare nell’occhio del ciclone non è solo la Tianji Coal Chemical Industry, alla quale la Winter Swimming Association di Handan ha già chiesto 20 milioni di yuan di risarcimento (oltre 2 milioni di euro). Per il popolo di internet, infatti, il vero responsabile dell’insabbiamento è il nuovo governatore dello Shanxi: Li Xiaopeng, figlio dell’ ex premier Li Peng passato alla storia come “il macellaio di Tian’anmen”. Un’altra patata bollente per Li, solo pochi giorni prima caduto vittima della gogna mediatica per aver taciuto sull’esplosione di un tunnel in costruzione, a Linfen.
La rabbia sul web ha raggiunto subito proporzioni virali. “Come ho aperto il rubinetto è uscita un’ acqua color ruggine. Anche dopo un’ora, il lavandino sembrava una pozza di latte giallo“, scriveva il 6 gennaio sul Twitter cinese, Sina Weibo, @Niuniu,”dovrei avere il coraggio di cucinare con quest’acqua? Avrei dovuto prendere parte all’assalto dell’altra notte e portare via alcune bottiglie.“
Per contenere i rumors circolanti sulla rete (diverse Cassandre andavano predicando altri tre giorni senza acqua), le autorità si affrettarono a ripristinare l’approvvigionamento idrico della città, aprendo serbatoi sotterranei e mettendo a lavoro circa 5.000 persone. Il 7 del mese la situazione ad Handan era tornata quasi alla normalità, ma ciò non bastò a sopire il malcontento dei cittadini, irati per il modo in cui era stata gestita la crisi.
Nemmeno le scuse del sindaco di Changzhi, colpevole di aver “sottovaluto il danno”, riuscirono ad azzittire la vox populi. “Anche con poche informazioni, mi chiedo perché l’impianto chimico sia stato costruito proprio vicino ad una fonte d’acqua“, è il commento dell’editorialista @Lianpeng, “è stata fatta una supervisione rigorosa? Devo dire che non ci stiamo prendendo per nulla cura dell’inquinamento idrico. Un giorno pagheremo un prezzo molto alto“. Forse Lianpeng non sa che quel prezzo la Cina lo sta pagando da tempo.
Secondo la rivista economico-finanziaria Caixin, quello della fabbrica della Tianji Coal Chemical Industry è l’ultimo di una serie di 18 incidenti di inquinamento delle acque in soli otto anni. In tutta la Repubblica popolare, dal Jilin al Guangdong, dal Jiangsu allo Yunnan, centri industriali sono stati coinvolti in casi analoghi considerati di grave entità. Circa la metà dei fiumi del Paese sono stati classificati dal governo come “molto inquinati”. Secondo le stime del Ministero della Supervisione, il costo totale in termini di vite umane è di 60.000 morti premature l’anno.
“Questo è in parte spiegabile dalla presenza massiccia di fabbriche: sono circa 10.000 gli impianti petrolchimici lungo lo Yangtze, 4.000 quelli sulle sponde del fiume Giallo“, ha spiegato Elizabeth Economy del Council on Foreign Relations. Le acque in prossimità delle principali città risultano contaminate dagli scarichi industriali e dai rifiuti urbani, mentre i trattamenti chimici necessari a darne la potabilità potrebbero essere a loro volta dannosi per la salute. Come sottolinea Alberto Forchielli, fondatore di Mandarin Capital Partners e presidente di Osservatorio Asia, la conseguenza economica è stata l’aumento costante di liquidi in bottiglia, laddove nei Paesi industrializzati l’imbottigliamento in plastica sta registrando un calo proprio a causa dell’impatto ambientale. Soltanto lo scorso anno, in Cina la Nestlé ha visto le sue entrate per l’acqua imbottigliata crescere del 27% rispetto al 2011.
Al fattore inquinamento va ad aggiungersi la conformazione geografica del territorio nazionale, solo per il 10% coltivabile. Sono più di quaranta i centri urbani a dover fronteggiare una scarsità di risorse idriche allarmante, sopratutto nell’arida pianura cinese settentrionale. Pechino, Tianjin e le province del Jiangsu e dello Shandong sono considerate ad alto rischio idrico, mentre lo stesso terreno sul quale sono state costruite le grandi città continua a sprofondare di diversi centimetri l’anno a causa dell’eccessivo prelievo delle falde acquifere.
Eppure, qualcosa indurrebbe a pensare che i cittadini non siano più disposti a sopportare un perseguimento sconsiderato della crescita economica. Secondo Yang Chaofei, vice-presidente della Società Cinese per le Scienze Ambientali, tra il 2010 e il 2011, il numero delle “proteste verdi” è aumentato del 120%. In occasione di una conferenza sull’impatto sociale dei problemi ambientali organizzata dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo (Npcsc), Yang ha rivelato che i cosiddetti “incidenti di massa” sono cresciuti con una media annua del 29% tra il 1996 e il 2011; 927 quelli ai quali il ministero della Protezione Ambientale ha dovuto far fronte a partire dal 2005, di cui 72 classificati come “di grande rilevanza”.
Ormai da anni Pechino ha smesso di rilasciare le statistiche ufficiali, dopo che il numero annuo delle proteste violente ha superato la soglia delle 100mila. Ma – secondo Sun Liping, professore di sociologia presso l’Università Qinghua – solo nel 2010, gli incidenti di massa sarebbero stati circa 180mila.