Aborto post-nascita: nuovo nome per una pratica vecchia come il mondo?
I due ricercatori italiani che teorizzarono la legittimità della soppressione di neonati a Torino per chiarire le loro posizioni. Ed è di nuovo polemica
di Rosa Fenoglio
Gli spartani, senza l’attribuzione di un nome specifico e simil scientifico, lo praticavano in tempi non sospetti. Infatti, già tremila anni fa i bambini nati deformi, com’è noto, venivano abbandonati sul monte Taigeto e lì lasciati a morire.
Se la teorizzazione dell’aborto post-nascita da una parte sembra riportare il dibattito sulla vita agli albori della civiltà, le affermazioni di due ricercatori italiani prestati all’univeristà di Melbourne vanno oltre le pratiche pre-cristiane ed estendono la legittimità dell’infanticidio anche a neonati sani.
Alberto Giubilini e Francesca Minerva si appoggiano e, nello stesso tempo, superano le riflessioni che Peter Singer, caposcuola della bioetica utilitaristica, fece negli anni ’70 al fine di fornire basi teoriche all’uccisione di neonati.
L’aborto post-nascita, termine creato da Giubilini e Minerva, nelle intenzioni degli autori risulterebbe essere la logica conseguenza dell’aborto tout court. Se pensiamo che l’aborto è moralmente permesso perchè i feti non hanno ancora le caratteristiche che conferiscono il diritto alla vita, visto che anche i neonati mancano delle stesse caratteristiche, dovrebbe essere permesso anche l’aborto post-nascita.
L’argomentazione dei due bioeticisti ruota intorno al concetto di persona. Per essere considerati persone non è sufficiente provare piacere o dolore, caratteristiche attribuibili anche al feto, ma bisogna essere in possesso di un apparato neurologico superiore. Unicamente tale apparato permetterebbe, infatti, di avere scopi e aspettative verso il futuro, provare interesse per la vita. Un neonato, come un feto, non è in grado di attribuire alla propria esistenza alcuni valori di base, in modo tale che la privazione di questa esistenza rappresenti per loro una perdita.
In seguito alle forti polemiche suscitate all’interno del mondo cattolico e laico, il 12 gennaio scorso i due studiosi hanno tenuto, per la prima volta in Italia, una conferenza all’Università di Torino per chiarire le proprie posizioni in merito all’argomento. L’incontro è stato voluto e organizzato da Maurizio Mori, docente di bioetica all’ateneo piemontese e presidente della Consulta di Bioetica onlus, al fine di difendere le posizioni espresse dai due ricercatori, vittime di una gogna mediatica e di minacce personali.
Al di là delle aporie logiche che la teoria di Giubilini e Minerva presenta, messe in luce, tra gli altri, da Adriano Pessina, docente di bioetica alla Cattolica di Milano, come spesso accade in relazione a questioni etiche che toccano argomenti così delicati, la consequenzialità logica sembra portare unicamente all’inasprimento delle posizioni.
Infatti le stesse argomentazioni racchiuse nell’articolo sono state utilizzate dai movimenti pro-life per scagliarsi contro l’interruzione di gravidanza e, dunque, per delegittimarla. Se tra un feto e un neonato non c’è alcuna differenza, se entrambi mancano dello status di persone morali in senso pieno, come non è lecito uccidere un neonato così non dovrebbe essere permesso uccidere un feto.
Dall’avanguardia scientifica più estrema si passa così alla messa in discussione di diritti ormai considerati acquisiti e si equiparano pratiche molto distanti tra loro come l’aborto e l’infanticidio.
I due ricercatori sembrano essersi dimenticati il progresso scientifico che attualmente fornisce tutti gli strumenti sia per evitare di mettere al mondo un figlio potenzialmente sano, ma non voluto, sia per conoscere in anticipo lo stato di salute del nascituro e decidere come comportarsi. Insomma si torna ai tempi di Sparta dimenticandosi completamente lo stato attuale delle conoscenze mediche.
L’unico risultato che sembra aver prodotto la teorizzazione e la divulgazione dell’aborto post-nascita sembra essere, dunque, l’irrigidimento di contrapposizioni ideologiche che nuociono unicamente agli individui che queste scelte dolorose e drammatiche le vivono ogni giorno.
Ci sarebbe da porsi delle domande in relazione alla legittimità della diffusione del dibattito scientifico, ma prima, forse, si dovrebbe capire se la bioetica possa essere realmente definita scienza. Ma questa è un’altra storia.