La forza delle vittime
Alla Galerie Lelong (New York), “From Victimage to Liberation: Works from the 1980’s and the 1990’s” una retrospettiva dedicata all’artista Nancy Spero
di Alessia Signorelli
“Tornava indietro nel passato, eppure era totalmente immersa nel presente. Parlava in egual misura del Vietnam, dell’Iraq, dell’Afghanistan, dell’Uragano Katrina e delle lamentatrici tebane, mescolando tutto insieme.”
Questa è Nancy Spero, nelle parole di Mary Sabbatino, curatrice della mostra “From Victimage to Liberation. Works from the 1980’s and the 1990’s” e vicepresidente della Galerie Lelong che ospiterà l’esibizione fino al 16 febbraio prossimo.
Diciassette lavori, un terzo dei quali esposti una sola volta o mai, negli Stati Uniti.
L’arte di Nancy Spero, pioniera del femminismo, nata nel 1926 a Cleveland (Ohio) e morta nel 2009, si pone come uno “statement” che non fa sconti a nessuno nel denunciare la tracotanza del privilegio Occidentale, il continuo ed insinuante spadroneggiare del maschio e gli abusi perpetrati ai danni delle donne in tutto il mondo.
In tutte le sue opere, Nancy Spero inseriva dei commenti personali, affidati alla carta o al medium dell’installazione, più effimero e volatile, fatti di immagini in cui il pensiero e l’orrore vengono narrati con una qualità di stampo extra-contemporaneo, “warholiano”, con figure ripetute, colori “acidificati” unite a tecniche più antiche, che ritrovano le proprie origini nell’arte Egiziana e greco-antica. Perché l’ingiustizia, si sa, è sempre senza tempo. Le forme possono evolvere, ma il contenuto resta graniticamente lo stesso.
In “From Victimage to Liberation”, si osserva, attraverso 17 opere, quel percorso che porta l’oppresso, la vittima (la stessa Spero coniò il termine “victimage”) a “liberarsi” di questa condizione attraverso una trasformazione endogena, in un movimento continuo, esplicato attraverso il dualismo di tensione e rilascio.
Opere emblematiche quali Death Figure/Gestapo (1994), Argentina e South Africa (entrambe del 1981), El Salvador e Nicaragua (1986), per citarne solo alcune, ci mostrano la visione della Spero relativamente a tematiche quale la violenza, i desaparecidos, le vittime innocenti dei conflitti mondiali.
Attraverso l’utilizzo di un immaginario brutale, duro, non apologetico, Nancy Spero, racconta la storia del mondo, da un punto di vista chirurgico e, al tempo stesso, struggente e poetico. Figurine ritagliate di donne seminude, coi cappi al collo, affiancate da una Morte femmina, ispirata alla Santa Muerte del Dìa de los Muertos messicano, donne che strisciano ed urlano, ripetute in un loop onirico e scomodo, spesso incollate in cima ai report di Amnesty International – sulle torture perpetrare alle donne in stato di gravidanza, sulla condizione delle prigioniere politiche.
Il mondo, lo sappiamo, non è affatto un bel posto, e, questo tanto cercato progresso, sembra subire un arretramento (anche a causa dell’affinarsi di atroci tecniche di tortura ed oppressione) e l’arte ne è una conseguenza ed un commento. Nancy Spero, nell’arco della sua vita di artista e femminista, ne ha illustrato gli orrori fornendo, al tempo stesso, una modalità non solo di redenzione, ma anche di liberazione: le figure oppresse, agendo come “disturbatrici” della quiete compiaciuta (frutto, verrebbe da dire, del privilegio occidentale tanto osteggiato dall’artista) dell’osservatore, subiscono un ribaltamento e la loro posizione subalterna, acquista potenza e vigore, andando ad inserissi con forza, nel pensiero e, si spera, nella riflessione di chi osserva l’opera.
Un’artista da (ri)scoprire, a quattro anni dalla morte, che, come tanti della sua generazione e, soprattutto, della sua corrente di pensiero, dove il corpo viene de-romanticizzato per specifici intenti sociali e filosofici, hanno ancora molto da dire e risultano sorprendentemente attuali.