Siamo tutte “Appese a un filo”
Dopo il punto di vista di lui in “Cuori Monolocali” tocca allo sguardo femminile che chiude lo spettacolo “Come risolvere in due problemi che da solo non avresti”
di Alessia Carlozzo (@acarlozzo)
Si stava meglio quando si stava peggio. O almeno questo è quello che potrebbero aver pensato le tre donne interpretate da Maria Antonia Fama (autrice anche degli stessi monologhi) che si sono avvicendate sul palco del Teatro Studio Uno.
“Appese a un filo” è l’ideale seconda parte di “Come risolvere in due problemi che da solo non avresti” e al contrario della prima parte, “Cuori Monolocali”, qui il punto di vista è tutto al femminile.
Giocando sul concetto di filo fisico e tangibile quale quello di un telefono, i tre monologhi attraverso un divertente viaggio a ritroso nel tempo, analizzano un elemento non troppo nascosto che caratterizza buona parte dei rapporti uomo- donna: l’attesa.
La tipica pretesa femminile che questa risulti essere un momento quasi necessario in ogni relazione, capace di portare a un (quantomeno utopico) cambiamento del partner. Le tre protagoniste si struggono così di fronte a un telefono, croce e delizia personale.
Attraverso un viaggio a ritroso nel tempo veniamo così trascinati letteralmente in tre frammenti quotidiani della vita di tre donne alle prese con rapporti complicati ma anche piuttosto comuni. La scena si apre e si conclude con una studentessa fuorisede, in viaggio con Trenitalia, bersaglio ideale di tutti i classici imprevisti che un viaggio in treno prevede quando si tenta disperatamente di comunicare al telefono.
Non bastano gli annunci, le gallerie e un vicino particolarmente affascinante, la stessa si ritrova vittima del destino beffardo, che all’apice della conversazione amoroso con l’amato, la costringe a una brusca interruzione. Il credito è terminato. Ideale martire del “pay for me” si ritroverà a maledire quel piccolo apparecchio telefonico e a desiderare ardentemente epoche lontane, i colorati anni 60’, dove imperversava l’uso della cabina telefonica e tutto forse aveva un sapore diverso.
Protagonista del secondo monologo è proprio una (poco swing in realtà) ragazza in attesa al parco (sbagliato) del suo compagno. Un’attesa logorante riversata su una panchina come altre, un’analisi irriverente e cinica dell’incapacità di cambiare di molti uomini e la strenua illusione delle donne di riuscire prima o poi a crescere quel “cucciolo” d’uomo. Anche lei implacabile sostenitrice del “si stava meglio prima”, forse durante quei ruggenti anni 30’ legati a una sola cornetta a casa e nulla più. Tolta quella rimaneva il semplice e brillante piacere dell’incontro casuale, di uno sguardo furtivo in un club, di un invito a ballare insieme.
Il terzo e conclusivo monologo è probabilmente il più amaro. Gli anni del primo post-guerra, un’attrice, la sua vestaglia rossa e orientaleggiante e il suo tavolo da toletta. Al suo fianco un apparecchio telefonico, una cornetta pesante, troppo pesante evidentemente, incapace di sostenere il peso delle parole che lei stessa vorrebbe confidare all’uomo che ama. Un classico triangolo, lui, lei e l’altra, dal retrogusto di cioccolata, quella che ingurgita lei in preda alla rabbia, quella che gusta lui sapiente amante della stessa.
Un telefono che non squilla e non chiama, una spina staccata e l’amarezza di non sapersi mostrare alla persona che ama come davvero vorrebbe.
Un’amarezza atavica che forse si protrae nel corso dei secoli e che oggi più che mai è intrappolata in quei fori di un telefono, verso i quali vorremmo riversare tanti pensieri, ma che poi tratteniamo inevitabilmente.
“Appese a un filo” con la partecipazione di Alessandro Di Somma, per la regia di Velia Vitti, è sicuramente un’intensa e musicale fotografia al femminile sulle donne per le donne ma non solo. Pervase da un senso di precarietà sentimentale, le tre protagoniste malgrado le differenti epoche storiche, riescono a cogliere sensazioni senza tempo, la voglia di provare a investire in un rapporto, di prendersi cura del proprio uomo (la sindrome della crocerossina è purtroppo un nostro evergreen) l’attesa perenne che illudiamo sia il preludio a giorni più rosei.
Ed è in questi casi che è bene ricordarsi il mito di Arianna, da cui questo spettacolo traccia un ipotetico inizio, la giovane donna sedotta dal prode Teseo e poi abbandonata su una spiaggia. Il filo che li aveva uniti si era spezzato e alla donna non rimase nulla. Un monito per ricordarsi che le sorprese all’altro capo del filo sono sempre infinite. Una cospicua ricarica telefonica aiuta, ma contro le interferenze a volte c’è poco da fare.
“Come risolvere in due problemi che da solo non avresti”
“Cuori Monolocali” / “Appese a un filo”
Roma, Teatro Studio Uno
22 gennaio – 10 febbraio 2013
Uno spettacolo 10 € | due spettacoli 15 €
Una risposta
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