L’Italia vista da fuori
Il rilancio dell’investimento estero diretto è un passaggio fondamentale per la ripresa dell’economia italiana. Ecco quale strada occorre seguire
di Andrea Ranelletti
Il primo mese del 2013 è stato prodigo di buone notizie per i cosiddetti PIIGS, i paesi deboli dell’area euro. Le nefaste tendenze che nella prima metà dello scorso anno sembravano destinate a causare l’implosione della moneta unica hanno conosciuto una fortunata inversione, da tutti messa in relazione all’ormai celebre discorso di Mario Draghi di fine luglio. La fuga dei capitali internazionali dalle finanze di Italia, Spagna e Portogallo pare essersi interrotta e la fiducia dei mercati sta risentendo di questa ventata d’ottimismo. Negli ultimi sei mesi la Borsa di Milano ha recuperato oltre il 40%, le aste dei titoli di stato stanno continuamente andando a segno e il differenziale tra i Btp e Bund, da oltre un anno eletto a barometro dello stato di salute delle nostre finanze, si è stabilizzato su cifre accettabili.
Nonostante i dati positivi siano numerosi, resta azzardato parlare di un’effettiva ripresa dell’economia. Una delle maggiori ragioni di preoccupazione degli analisti è la scarsa ripresa dell’investimento estero in Italia: un regolare flusso di capitali stranieri è da sempre ritenuto valido termometro della competitività economica di una nazione. Le ragioni del poco interesse suscitato dall’Italia sono note: da anni si parla della scarsa flessibilità del nostro mercato del lavoro, dell’eccessiva quantità di imposte, del dedalo istituzionale che rende difficile sbrigare le pratiche essenziali all’apertura e al mantenimento di un’azienda. Un articolo il 19 gennaio sul Sole24Ore indica come gli investitori cinesi, spaventati dagli eccessi della nostra burocrazia, preferiscano di gran lunga fare impresa in Germania, Svizzera e Francia piuttosto che in Italia.
Il rapporto Doing Business stilato dalla Banca Mondiale per il 2013 mostra un lieve e insufficiente miglioramento riguardante la semplicità di fare impresa in Italia rispetto agli anni precedenti: dall’80° posto del 2010 si è giunti al 73°. Poco, tenendo conto che l’Italia nel 2008 era collocata al numero 53. Emblematico il 131° posto nel campo paying taxes, dato dall’ammontare annuo delle tasse e dei carichi amministrativi che un’azienda di medie dimensioni deve pagare in relazione al proprio reddito: si calcola nel rapporto che tra salari lordi, Ires, Irap e altri carichi di vario genere, il carico fiscale italiano medio si attesta attorno al 68%. Un cifra ben distante dal 35% che paga un’azienda inglese e dal 46% delle aziende americane e tedesche.
Il Decreto Sviluppo bis, entrato in vigore lo scorso 3 gennaio, prevede la costituzione di uno sportello unico (DeskItalia), pensato per diventare centro di coordinamento degli imprenditori esteri intenzionati a investire in Italia. E’ dall’aumento del numero di provvedimenti di simile impatto che passerà la ripresa delle finanze statali: l’ abbondante afflusso di investimenti diretti esteri è ragione di ottimale salute dell’economia e motivo di forte slancio, in Italia spesso sacrificato per lasciar posto al made in Italy. La necessità di difendere l’”italianità” è importante, ma bisogna guardarsi dagli eccessi e non farla diventare la ragione di un ingabbiamento dell’economia intera.
(fonte immagine: http://www.investireoggi.it)