Ai Weiwei No Sorry
L’artista cinese protagonista del documentario, sulle sue lotte per la libertà, di Alison Klayman
di Francesca Britti
Libertà. Con questa unica parola si potrebbe descrivere il “personaggio” di Ai Weiwei, dissidente cinese protagonista del documentario sulla sua vita, Ai Weiwei Never Sorry della regista Alison Klayman.
Libertà perchè l’artista contemporaneo cinese ha fatto di questo valore il leitmotiv delle sue battaglie contro il regime comunista. Lotte che gli sono costate care proprio in termini di libertà. Infatti, fino allo scorso giugno Ai Weiwei era in libertà vigilata dopo aver passato 81 giorni detenuto e rilasciato solo su cauzione dopo (falsa, come sottolineato nel lungometraggio) ammissione di evasione fiscale.
In realtà, il motivo per cui il designer è stato a lungo detenuto in località nascosta è ovvio: lotta per la libertà di espressione dei cinesi. Il blog su cui Ai Weiwei scriveva la sua opposizione è stato chiuso nel 2009, dopo tre anni di intensa attività. Fermo nel valore della sua battaglia, l’artista aveva creato un account twitter su cui aveva iniziato a postare foto dell’aggressione di un poliziotto e delle successive (vane) denunce. Il suo scopo è sempre stato quello di informare la gente, in particolare i più giovani per far sì che errori del passato, delle precedenti generazioni alla sua (come quella del padre intellettuale e dissidente anch’egli)si ripetessero.
Una lotta che rivela un senso di amore e protezione verso la propria terra, un senso di rivalsa sociale e politica seguendo le orme dei suoi predecessori come Liu Xiaobo, vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 2010 alla cui premiazione Ai Weiwei non potè partecipare a causa di un controllo di “routine” della polizia presso l’albergo in cui alloggiava con alcuni suoi collaboratori.
Una formazione negli Stati Uniti per 12 anni e il ritorno in Cina sono stati per Ai Weewei un mix fatale. Una crescita umana e artistica che, tornato in patria, rischiava di bloccarsi a causa del regime. Due sistemi politici e sociali, quelli dell’America e della Cina, che nella loro opposizione hanno certamente contribuito al desiderio di cambiamento dell’artista. Un paese dove i cittadini sono trattati come esseri umani, possono manifestare il loro dissenso al governo senza aver paura di essere picchiati e detenuti per ore, possono accedere liberamente alle (vere) informazioni grazie ad Internet.
Un caso su tutti, è quello riguardante l’indagine personale che Ai Weiwei aveva aperto per scoprire il numero delle vittime del terremoto di Sichuan del 2008, dato che ufficialmente il governo voleva nascondere ma il dissidente, grazie all’aiuto di molti volontari, ha rintracciato: 5.385 vittime. In loro memoria l’artista ha attaccato sul muro del suo ufficio, al FAKE Design di Pechino, la lista con i nomi dei bambini morti nella catastrofe.
Sono proprio i nuovi media, quelli digitali, ad aver permesso ad Ai Weiwei di ispirare le audience globali e sfondare le barriere del mondo dell’arte e della politica giungendo alla sua “elite”: il ceto medio che ha saputo coinvolgere, grazie ai potenti mezzi della comunicazione, in questa dura lotta per la rinascita.
Tra frammenti di vita personale (il rapporto con la famiglia natia e con il figlio nato da un rapporto extraconiugale) e scene di quotidiana lotta, la regista Klayman ha colpito nel segno con questo documentario, vincitore di numerosi premi tra cui il Sundance Film Festival per il premio giuria (2012) e la prestigiosa partecipazione al Berlin Film Festival (2012).