Uscendo ho incontrato Don Diegoh
Una volta, al Muzak, nel quartiere Testaccio di Roma. L’avessi incrociato per strada, ri-conoscendolo, sarebbe arrossito. E dopo i tipici convenevoli, magari avrebbe risposto…
di Valentina Palermi
“Guarda che non sono io”. Sì, proprio come la canzone di De Gregori. Dietro a queste semplici parole nessuna velleità da primadonna, semplicemente “non credo, comunque, di essere facilmente riconoscibile”. Perché, nonostante viva a Roma da otto anni, e qualche volta gli capiti di essere fermato (non solo nella sua città), ed essere chiamato “Don Diegoh”, non ha “mai voluto approfondire discorsi legati alla mia ‘pseudo-carriera’. Quando parlo con qualcuno vorrei parlare di come stiamo, di qualcosa di bello o meno bello che avviene nel mondo, e non di quanti dischi ho fatto o quanta gente c’era alla serata ‘x’ .
Don Diegoh è originario di Crotone, con la quale mantiene un forte legame. Nei giorni scorsi ha partecipato ad un incontro al Liceo Classico Pitagora, che ha frequentato. Inoltre Luca, un ragazzo della sua città, ha scelto il titolo di una sua canzone (“Crotone State of Mind”) per la tesi di laurea. “È una responsabilità, nonché un grande onore”.“
Ai microfoni di Occupy Deejay per The Flow, insieme a Mastrofabbro (anche lui calabrese) ha parlato della loro collaborazione lunga quindici anni, e dell’ultimo album in ristampa, “Radio Rabbia”: un lavoro “coo-llettivo”, che vede la partecipazione di numerosi MC e DJ del Sud, “il nostro modo di stimolare un colpo di reni. Con qualcuno ci siamo riusciti e di conseguenza abbiamo reagito anche noi a piccoli eventi poco piacevoli capitati nel corso degli anni in cui lo abbiamo realizzato”, non tanto urlando ma scandendo bene le parole, come una lente d’ingrandimento aiuta ad osservare meglio i particolari. E a me, della – non solo loro – amicizia: “Il fatto di avere dei buoni amici nel mondo del rap mi fa star bene. Spesso ci sentiamo al telefono e devo dire che non sempre lo facciamo per parlare di musica o delle nostre attività del periodo. Talvolta lo facciamo per sapere come va la vita e come va il lavoro”.
In Italia è forse più “scontato” veder emergere artisti appartenenti a questa cultura “urbana”, l’Hip-Hop, che orbitano attorno a Milano (basti pensare a Emis Killa, Ensi – di Torino – , Entics, Mondo Marcio, Marracash, Club Dogo). Don Diegoh si è avvicinato a questo mondo “in maniera molto spontanea, recuperando grazie all’aiuto dei miei più cari amici i nastri più famosi e qualitativi di quel tempo, ormai abbastanza lontano. Mi innamorai del suono di Neffa, Otr, Biggie, lasciando che riempisse le mie giornate”.
L’Hip Hop gli “ha permesso di crescere, di dire a me stesso e agli altri chi sono davvero. Molte volte alcune cose le dici più facilmente in rima che in un discorso confidenziale”. Poi, arrivato nella capitale, ha “avuto la fortuna di essere aiutato da alcuni tra i maggiori esponenti del rap romano (e italiano) a insediarmi meglio”, ma dopotutto “non è cambiato nulla”.
Sono passati cinque anni dalla sua partecipazione all’Hip-Hop MEI di Faenza, e sei da quella a Le Tecniche Perfette, dove si è posizionato al secondo posto su oltre 100 aspiranti: “si tratta sempre di tappe. Il traguardo l’ho raggiunto conoscendo l’Hip-Hop. In una mia canzone dell’album Radio Rabbia dico ‘Senza fine un inizio non può iniziare’: intendo esprimere proprio questo, paradossale, concetto. Quando a 13 anni ho iniziato ad approcciare questo mondo ho visto la mia ‘esistenza’ diventare vita. Da lì in poi, ho cucito tra di loro i punti di partenza”.
Nel 2007 si presenta con le “Storie di tutti i giorni”, che definisce scherzosamente “un disco per le mamme”, per poi cercare di arrivare alla gente normale, indipendentemente dai gusti musicali, con “Double Deck”, l’anno successivo. In comune, la voglia di disegnare il quotidiano utilizzando un linguaggio diretto, definito magari semplice, ma che nella sua sintesi richiede di voler dare pieno significato ad ogni singola parola. “Un tratto distintivo di una generazione che ha sempre preferito la concretezza e la spontaneità alle marchette, al lato più patinato della faccenda, al gossip, al fashion e alle false costruzioni ideologiche”. E lui, “non solo anagraficamente”, ne fa parte.
A questo punto, mi viene da domandargli a che punto sia l’Hip-Hop nel nostro Paese. “É messo bene. Ci sono ottime realtà che si sono imposte sul mercato e che non si sono minimamente snaturate. Speriamo che non sia solo un momento di passaggio e che perduri nei fruitori la sensazione che le quattro discipline siano un aiuto di natura culturale oltre che una forte espressione artistica”.
Certo, sono ancora forse pochi i programmi radiofonici e televisivi che parlano e suonano l’Hip-Hop: vi confido che recentemente sono incappata giusto in The Flow e One-Two-One-Two, di DeejayTV e RadioDeejay. Per Don Diegoh “un ottimo risultato, vista la passione e il lavoro svolto da queste emittenti. Non so se si può fare di più. Ho vissuto periodi in cui non si faceva neanche questo, ragion per cui direi che è il caso di accontentarci e di considerare queste piattaforme come un ‘dippiù’ da meritare ‘sul campo’ ”.
La voglia di emergere è forte, ad ogni livello, e magari all’interno del mondo Hip-Hop “non andiamo tutti d’accordo con tutti. Personalmente non ho problemi con nessuno e penso solo a scrivere canzoni”. Lui lo fa, soprattutto nel freestyle, lasciandosi “ispirare da quello che accade intorno a me”. Abitualmente “guardo film, leggo, scrivo e ascolto diversi generi di musica. Ma non tutto quello che interiorizzo confluisce nelle mie canzoni. Questa, da un certo punto in avanti, è diventata una vera e propria presa di posizione piuttosto che una circostanza. Voglio mettere in rima quello che mi passa per la testa e quello che respiro. Il respiro non ha forme, così come la musica fatta con il cuore e senza guardare al portafogli”.
Così come ha realizzato quelli che considera i pezzi più coinvolgenti – “Punto di (non) ritorno” e “Ci siamo persi”, da “Radio Rabbia”, e “Puerpera”, da “Storie di tutti i giorni” -, che sente quasi come fossero marchi sulla pelle, perché “scriverli e rapparli è stato un modo per continuare a vivere togliendosi dei macigni dall’anima”.
Continuare a vivere, e guardare al futuro. “Ci sono giorni in cui mi sveglio con il desiderio di avere una famiglia, una casa sul mare e un libro di poesie da leggere”, e ridendo aggiunge “Poi mi lavo, mi vesto e vado a lavoro”.
Ma subito dopo torna serenamente serio: “Io quello che vorrei è vedere la mia città rinascere, risorgere, reagire. Per il resto mi auguro di restituire ai miei amici l’amore che mi hanno dato in questo periodo”.
Ecco, lo ri-conosco. Questo è Don Diegoh.