L’intimo addio di Gabriele Basilico, a ricordarci i momenti in cui si tocca la vetta
Esattamente una settimana fa, uno dei più grandi fotografi italiani ha chiuso gli occhi sul mondo che “ritraeva”
di Valentina Palermi
Non ha mai smesso di girare per il mondo durante la sua intesa carriera, Gabriele Basilico. Pochi passi, come quando da bambino con la nonna guardava il Duomo di Milano, dov’era nato nel 1944, spalancando gli occhi di fronte alla grandezza della Piazza e della cattedrale. Brevi tragitti, al ritorno dal servizio di leva a Torino, quelli che lo portavano a catalogare con la sua macchina fotografica la periferia industriale milanese per testimoniare un cambiamento che i cortei e le manifestazioni del ’68 al Politecnico non raccontavano. Oppure le strade percorse alla fine degli Anni Settanta, per fermare espressioni e passi di danza al Parco Lambro o nei dancing dell’Emilia Romagna.
Studente di architettura, non abbandona il design, gli interni e gli edifici, ma invece di progettarli li fotografa. Dopo aver aperto il suo studio in Via Brera, nel 1982 realizza prima il reportage “Ritratti di fabbriche (Sugarco)”, per volare via due anni dopo, per documentare la trasformazione del paesaggio transalpino, inserito per volere del governo francese nel ghota di operatori impegnati nella Mission Photographique de la D.A.T.A.R., in compagnia di Baltz, Depardon, Doisneau, Fasteneaken e Kudelka.
Il suo coinvolgimento in questo progetto gli permette di inserire i suoi lavori in numerose pubblicazioni come Bord de Mer (AR/GE Kunst), Italia & France (Jaca Book), e Porti di Mare (Art&), e lo spinge sempre più lontano, fino ad arrivare a Beirut nel 1991, testimone degli effetti della guerra civile. Lì, dove si correva per fuggire, nelle strade abbandonate e silenziose, popolate di macerie, in realtà lentamente scopre la vita, animata dai panni stesi, dalla polvere e dal fumo.
I suoi “ritratti” sperimentano, attraverso un linguaggio scevro di ideologie e compromessi, l’interpretazione di un “mandato sociale – che nessuno mi aveva dato, ma che era la conseguenza dell’ammirazione che io provavo per il lavoro dei grandi fotografi del passato”. Questo “misuratore di spazi” (come amava definirsi) contemplava con il proprio obiettivo scorci e costruzioni prive di presenza umana, affidando all’atto di “fotografare con lentezza” (questo il suo motto) l’abilità scientifica di cogliere particolari anche minimi della loro assonometria e della loro utilità, restituendoci una “percezione del globale”, piena di vibrante identità, quasi melanconica ma consueta a molti. Come delle geometriche scatole cinesi, i corpi cementificati dello sviluppo industriale suscitano in chi li osserva sentimenti contrastanti, di appartenenza come di annichilimento.
Proprio come confessa nel 1997 all’interno del suo libro fotografico “Nelle altre città”: “Riflettendo su […] questo andar per luoghi, mi sembra che una condizione costante sia stata l’attesa di ritrovare corrispondenze ed analogie. La disposizione affettiva che guidava […] i miei spostamenti e la mia curiosità, mi portava […] a eliminare le barriere geografiche: questo non significa che tutte le città debbano forzatamente assomigliarsi, ma significa che in tutte le città ci sono presenze, più o meno visibili, che si manifestano per chi le vuole vedere, presenze famigliari che consentono di affrontare lo smarrimento di fronte al nuovo”.
“Come un rabdomante alla ricerca del punto di vista”, Gabriele Basilico cammina alla ricerca della giusta distanza tra sé stesso, l’occhio e lo spazio, “portando” con lui i suoi maestri (Eugène Atget, Bernd e Hilla Becher, Walker Evans, Bill Owens) in uno slow tour tra Istanbul, Mosca, Roma, San José, Shanghai.
Ma non furono mai le numerose pubblicazioni, i cataloghi, e le mostre in giro per il mondo a “ricordargli i momenti in cui si tocca la vetta”, piuttosto un’immagine scattata in cima ad un promontorio in Alta Normandia, a picco sul Mare del Nord: a valle “le case antiche e gli edifici industriali, il porto, il mare, le barche, la terra”, in alto “le nuvole che volavano velocissime. Tutto […] reso ancora più potente dal vento fortissimo che stava rendendo il paesaggio una cosa viva, c’era un cielo alla Vermeer o come quelli che avevo ammirato nelle vedute di Dresda di Bernardo Bellotto: dovevo solo scattare. […] avevo bisogno di un tempo di posa lungo, ma il cavalletto volava via […]. Allora ci siamo tolti le giacche a vento, abbiamo improvvisato una vela di protezione e finalmente ce l’ho fatta”.
Malato da tempo, ha tuttavia mantenuto inalterata (proprio come una fotografia) la sua curiosa passione: dagli Anni Settanta fino al termine dei suoi giorni, dalle fabbriche milanesi alla Sylicon Valley, attraverso la sua fotografia “sociale”, ha ricercato in maniera monotematica e spesso bicromatica la trasformazione degli spazi urbani, da quelli periferici, più vicini, fino ai luoghi di confine.
Proprio da un limite avrebbe desiderato “ricominciare”: dai porti, dove in un perpetuo stato di guerra e pace, solida architettura e mutevole natura convivono.
“Ci sono le mie strutture industriali, ma non su uno sfondo piatto, ma sul mare e sul cielo. Questa è la perfezione”. Come quella delle scogliere di Calais. La stessa imprigionata nei suoi occhi chiusi, per sempre.