All’inizio fu Man Ray
La National Portrait Gallery di Londra celebra l’innovazione fotografica di Man Ray, fino al 27 maggio
di Alessia Signorelli (@signorellialexa)
Nella coscienza collettiva, quando si nomina Man Ray, si materializza l’iconica e over – utilizzata fotografia intitolata “Le Violon d’Ingres” che ritrae Kiki de Montparnasse, pseudonimo di Alice Prin, modella e “it girl” della Parigi anni ’20, mostrandocela con le spalle rivolte all’obiettivo, un turbante avvolto attorno al capo, un drappo che le panneggia pigramente e mollemente i fianchi, lasciando ben poco spazio alla fantasia, e le due “f” del violino che spiccano sulla carne nuda della schiena.
Questi due particolari vennero aggiunti dal fotografo (il cui vero nome era Emmanuel Rudnitzky, nato a Filadelfia nel 1890) durante la fase di stampa del negativo. Una foto conosciutissima, sensuale e densa di significati. Man Ray, in un unico – per l’epoca scandaloso – scatto, aveva tramutato la sua frizzante amante in un’icona e in uno stratificarsi di citazioni, simboli ed allusioni: perché, in francese, quando si parla di “violon d’Ingres” (cioè, “il violino di Ingres”), si intende un passatempo, un qualcosa che uno porta avanti, parallelamente ad un’attività “ufficiale”, perché Kiki, in quello scatto, era un richiamo “belle epoque” alla “Bagnante di Valpinçon”, dipinta da Ingres, proprio, e perché Ingres nutriva una certa passione per il violino, e perché Kiki, come si diceva più su, era l’amante di Man Ray, era il suo “hobby”. Ed eccola, la genialità, la “scandalosità” , il gioco dada-surrealista del fotografo che ha segnato l’innovazione nell’universo fotografia.
In mostra alla National Portrait Gallery di Londra, c’è Man Ray, l’uomo, il fotografo, il dadaista e surrealista, lo sperimentatore, divertito, un po’ insolente, curioso, diretto e ironico.
Dall’uso rivoluzionario della macchina fotografica, ai primi esperimenti con il colore, ai ritratti di quelli che hanno incrociato il suo cammino: da Marcel Duchamp a Pablo Picasso, da (ovviamente) Kiki de Montparnasse, a Lee Miller per approdare a Catherine Deneuve, creatura eterea, attrice dalla bellezza totale ma anche sottilmente inquietante. Sono più di 150 le opere scelte e selezionate, che includono anche i lavori di Man Ray per magazines quali Vogue, Vanity Fair, Harper’s Bazaar e VU, magazine francese, fondato nel 1928, precursore di pubblicazioni quali Weekly Illustrated, Picture Post and Life, che vide una significativa presenza delle fotografie di Man Ray.
Una mostra che si concentra negli anni che vanno dal 1916 al 1968, tra gli Stati Uniti e Parigi.
Fotografie geometriche, nette eppure sconvolgenti, scandalose, terribilmente innovative, per quegli anni sempre in bilico tra ristrette vedute borghesi e frenesie dionisiache colorate dall’ostentazione delle prime trasgressioni sociali, sessuali, amorose e artistiche. Man Ray ha ritratto, con i suoi scatti, un’epoca piena di contraddizioni, avida di vita e curiosa di auto-distruzione, ha giocato con quei simboli conosciuti da tutti, trasformandoli in quel “qualcos’altro” alieno, inquietante e spesso, nemico e contrario (il famoso ferro da stiro con i chiodi).
Bianchi e neri, solarizzati, corpi che si fanno altro, che diventano un campo di gioco per l’occhio del fotografo/artista, che riesce a vedere oltre la mera fisicità, che sublima il nudo, “palleggiando” tra l’ironia e il desiderio, tra lo scherzo sardonico e le oscurità oniriche, mentre scrive un’epoca, e la racconta senza filtri. Forte dell’influenza Dada e Surrealista, Man Ray arrivò a toccare punte di meraviglia fotografica ancora oggi insuperate.
Perché non è sempre vero che “contemporaneo” corrisponda a migliore.