Nessuno è profeta in patria
L’ennesimo tentativo di costituire un centro alternativo ai due poli si è dimostrato un flop: una manciata di senatori non bastano per decidere le sorti di un governo
di Alessia Ricci
Mario Monti ha perso la sua scommessa. Il presidente del consiglio uscente non è andato oltre il 10 per cento, dopo aver sognato un grande pronunciamento riformista in suo favore. Avrebbe dovuto costituire l’ago della bilancia, ha rappresentato per mesi la mela della discordia tra Bersani e Vendola, invece, in questo momento è del tutto irrilevante. Il tecnico bocconiano, dai modi sobri, non è riuscito a trasformarsi in un uomo politico credibile.
Da un punto di vista numerico, Monti puntava ad ottenere almeno il 15 % dei consensi. In termini politici, ambiva a dirigere i giochi, in modo particolare al Senato, obbligando il centrosinistra, dato per vincente nei sondaggi, a contrattare per la formazione di una coalizione ed elevarsi così a custode della governabilità.
Un risultato del genere, invece, è appena sufficiente a consentirgli di entrare a palazzo Madama ed ottenere una manciata di senatori, 18 nello specifico; troppo pochi per contribuire alla nascita di un governo, figuriamoci per condizionarlo. Il risultato è modesto, la sua coalizione è marginale in Parlamento e nel Paese. I traguardi sono falliti entrambi.
Amaro risultato anche per i montiani d’appoggio. Tra i principali Gianfranco Fini che sparisce letteralmente dalla scena politica, con lo 0,5% alla Camera, risultato non del tutto imprevisto, ma particolarmente negativo per un leader che prima dello strappo con Silvio Berlusconi era accreditato come possibile suo successore alla guida del centrodestra italiano.
Stessa sorte per l’Udc di Pier Ferdinando Casini, poco sopra l’1,5% alla Camera. Casini “sopravvivrà” in parlamento essendo capolista della lista di Monti in diverse regioni, mentre Gianfranco Fini resta fuori, avendo scelto di fare il capolista di Fli per la Camera, dove il partito è lontanissimo dalla soglia di sbarramento. C’è da dire, anche, che la novità della proposta delineata dalla lista civica dell’ex Presidente del Consiglio è apparsa ridimensionata proprio dall’alleanza con i due leader che vantavano una trentennale presenza in parlamento. Forse è troppo affermare che Monti se ne sia pentito, certo è che in tutta la campagna elettorale non s’è mai fatto vedere, né fotografare, con loro.
Il Presidente del consiglio uscente ha commesso degli errori da principiante. A dicembre, quando ha scelto di “salire in politica” ha sopravvalutato la sua popolarità e soprattutto il suo prestigio internazionale, che non ha trovato riscontro in patria.
A Febbraio 2012 quando giunge negli Stati Uniti, viene accolto da Obama come il nuovo Colombo, la stampa internazionale lo esalta e si contende un suo editoriale. Una decina tra gli amministratori delegati delle più importanti multinazionali si mettono in fila per incontrarlo. Un trionfo insomma.
Monti allora immagina per sé percentuali ben diverse. Percentuali che poi è riuscito a capitalizzare nelle circoscrizioni estere. A dimostrazione della fiducia nei suoi confronti diffusa in alcune capitali europee, Monti è al primo posto in Germania, Francia e in Spagna.
Pure banche e finanza avrebbero voluto un altro scenario, i mercati hanno reagito male, avrebbero voluto una vittoria del Pd aperto a Monti. Se poi le elezioni avessero dato la vittoria a quest’ultimo per i mercati sarebbe stato il massimo.
Invece il popolo italiano non ha votato con lo stesso senso degli affari internazionali. Monti paga a caro prezzo le politiche di austerità adottate durante il suo governo che hanno avuto effetti recessivi. Anche se egli ha sempre sostenuto che si sarebbe trattato di un effetto temporaneo e che comunque il pareggio di bilancio costituiva una condizione (insieme alla deflazione salariale) per una ripresa futura, nella realtà gli effetti recessivi sull’economia italiana sono stati maggiori del previsto.
Con le manovre “strutturali” sui conti pubblici ed in particolare sulle pensioni, se ha recuperato credibilità sul piano internazionale, dall’altro ha prodotto austerità addizionale (accise, Imu, etc.) che sommandosi a quella già presente ha determinato per lui un effetto boomerang.
I sacrifici chiesti agli italiani, anzi, ai lavoratori, ai pensionati e al “ceto medio” si sono rilevati controproducenti ai fini della ripresa della crescita economica del Paese. Non hanno contribuito a ridurre l’indebitamento pubblico e hanno ridotto la domanda interna, accrescendo la disoccupazione e riducendo i salari.
Il fatto che queste misure sono state chieste “dall’Europa” non ha contribuito a giustificarne la necessità: semmai ha diffuso la convinzione che l’impoverimento di gran parte del Paese dipenda proprio dall’essere parte dell’Unione Monetaria Europea. A tradire Monti è stata proprio la sua amicizia con la Merkel.
A partire da questo, Monti si è aperto a promesse elettorali come la rimodulazione dell’Imu, con un aumento delle soglie di esenzione, il dimezzamento dell’ Irap e il dimezzamento delle prime due aliquote Irpef, ma non sono state sufficienti. Il Monti politico in campagna elettorale ha promesso, inoltre, di rendere la contribuzione “più equa”. Viene da chiedersi perché non lo ha fatto il Monti Presidente del Consiglio di un Governo “tecnico”?
Gli italiani si sono dimostrati stanchi di essere massacrati da aliquote scandinave e Monti non ha saputo offrire chiare soluzioni al problema. Al contrario Berlusconi e Grillo, con le diatribe su Equitalia e Imu e le giustificazioni all’evasione, hanno rastrellato forti consensi in due campi teoricamente nemici: i tartassati e gli evasori fiscali.
Così Monti si è detto preoccupato dal contesto in cui la sconfitta è maturata, in quanto a vincere è stato il populismo. Un riferimento, neppure troppo implicito, proprio ai partiti di Grillo e Berlusconi. Casini, invece, riconosce e ammette che Berlusconi ha saputo fare una grande campagna elettorale, facendo leva sui bisogni impellenti degli italiani e, si sa, il popolo vota con la pancia.
Questo è solo l’inizio di un lungo e doloroso processo, dal quale si potrà uscire positivamente solo con una maggiore eguaglianza sociale e con il rovesciamento dell’austerità. Siamo di fronte ad una crisi di sistema che può essere affrontata solo modificando il sistema stesso.
(fonte immagine: dagospia.com)