Quel governo a tutti i costi
Gli otto punti di Bersani, i quattro step di Renzi e la ricerca di alleati di governo
di Samuele Sassu
L’incertezza, da sempre prerogativa tutta di sinistra in Italia, la fa da padrone anche stavolta. Il Partito Democratico vive il momento più difficile della sua storia: ha “non vinto” le elezioni, cerca alleati e tenta di mettere in piedi un governo che definire precario è un eufemismo. Al suo interno le molteplici fazioni si intralciano a vicenda. C’è chi spinge ancora Bersani, chi vuole a tutti i costi Renzi e ognuno guarda alle possibili alleanze. Lo stallo, intanto, prosegue.
Il segretario insiste sugli otto punti delineati la scorsa settimana: fine dell’austerità, misure urgenti sul fronte sociale, riforme in tema di politica e vita pubblica, nuove leggi sul falso in bilancio e la corruzione, regolamentazione del conflitto di interessi, economia verde, nuove norme sui diritti civili, interventi in materia di istruzione e ricerca. Il problema, però, sarà trovare qualcuno disposto a fare propria questa linea per poterla poi applicare in sede governativa. Grillo, Monti o Berlusconi?
Andare avanti con i fari anabbaglianti nella nebbia, metafora coniata dallo stesso Bersani, sembra l’unica strategia possibile in casa Pd. Insieme al suo vice, Enrico Letta, il segretario insiste nella ricerca di possibili alleati che gli consentano di mettere in piedi un nuovo governo. Questo perché, secondo il leader democratico, “un Paese su cui pesa l’incognita economia, non può restare senza guida”. Parole sante, ma chi è veramente disposto ad allearsi con Bersani?
Il Movimento 5 Stelle, partner più ricercato, non garantisce alcuna stabilità. La credibilità di Beppe Grillo, poi, colerebbe a picco in un istante se dicesse sì a colui che più volte ha definito come “un morto che cammina”. Pertanto, se Montecitorio non andrà ai grillini, si potrebbe ipotizzare una presidenza affidata a un nome importante del Pd, Dario Franceschini. La news bomba, però, sarebbe la presidenza del Senato concessa a Mario Monti.
Il secco no, scontato e preteso da tutti coloro che ancora nutrono un briciolo di speranza in quell’amalgama chiamato Pd, è per Berlusconi. Bersani lo ribadisce continuamente: “Non si fanno patti con chi ha tentato di sovvertire il risultato delle urne comprando senatori”. Un chiaro riferimento a quanto accaduto nel 2006, durante il governo Prodi. Trae insegnamento proprio dal quel periodo, il segretario, annunciando la necessità di optare per una “governance plurale”, con la quale i democratici non pretenderanno per sé le presidenze delle Camere e di tutte le Commissioni.
Bersani è convinto di poter mettere in piedi un governo di minoranza, come accaduto nel 1976 con Andreotti. Mario Monti, al contrario, è convinto che Bersani non riuscirà mai a formare un governo e, dunque, il ritorno al voto è pressoché scontato. Peraltro, nell’ultimo periodo pare si sia verificato un certo avvicinamento tra il professore e Matteo Renzi. Di sicuro, entrambi invocano un immediato ritorno al voto in caso di fallimento di Bersani.
Il sindaco fiorentino ribadisce di non volere assolutamente “fare la pelle all’attuale leader”. Spinge sulla necessità di proporre interventi per risolvere i problemi del Paese e illustra le sue riforme pesanti in quattro step: abolire il finanziamento pubblico dei partiti; cancellare i vitalizi dei parlamentari; trasformare il Senato in Camera delle autonomie, i cui componenti andrebbero designati e retribuiti dagli enti locali; abolizione delle province.
Non perde occasione di criticare il sistema partitico tradizionale, specialmente per quanto riguarda il suo partito. A Che tempo che fa ribadisce: “Io sono per un partito bello, una comunità di persone che insieme decidono le cose da fare, non un partito che fa riunioni che sembrano terapie di gruppo, sedute di amministratori anonimi che si guardano in faccia e si raccontano”. Inoltre, critica la strenua ricerca di accontentare tutti per ottenere il consenso: il riferimento allo scambio di poltrone con Grillo ipotizzato dal Pd e al conseguente “inciucione” è chiaro.
Alza il tono quando annuncia che lo “scilipotismo” non deve diventare la nuova strategia dei democratici, poiché è stato proprio il Pd a contestarlo fortemente quando lo facevano gli altri. Parole che di certo daranno fastidio a chi, in questo momento, tenta in tutti i modi di lavorare nell’ombra per mettere in piedi il governo, pur negando ogni sorta di trattativa sottobanco.
Infine, Renzi annuncia di essere pronto ad affrontare nuove primarie in caso di ritorno al voto fra pochi mesi. Un passo fondamentale, proprio perché avvicina i cittadini alla politica. La stessa linea che ha fatto trionfare Grillo alle elezioni, poiché è riuscito a far passare il messaggio secondo cui l’elettore è davvero importante. “Il Pd – ammette Renzi – questa cosa l’ha fatta e poi si è fermato”. Come stupirsi, del resto. L’autolesionismo del centrosinistra non lo scopriamo certo oggi.
(fonte immagine: fanpage.it)