Alla scoperta dei Forest Creature
La “double-one-man-band” americana diverte e coinvolge il Fanfulla nella tappa romana del tour europeo
di Valentina Palermi
Una musica che fin dalla sua creazione ha viaggiato da un capo all’altro degli Stati Uniti e che in questi giorni ha raggiunto l’Europa, l’Italia, Roma. Amici dai tempi della scuola, artisticamente insieme da poco più di un anno, i Forest Creature hanno dato vita un mese fa a 11 brani realizzati attraverso l’invio di files e idee tra Brooklyn, dove vive Seth Faergolzia (già Dufus e collaboratore di Jeffrey Lewis e Adam Green), e la California, casa di John Ludington.
Canzoni irrefrenabili, frutto della collaborazione tra due “bizzarri” artisti e prodotte grazie al sostegno di numerosi amanti di un genere decisamente anti-folk e molto freak, che non sono riuscite a rimanere troppo tempo nell’etere e insieme ai loro creatori sono partite alla volta dell’Europa, per scatenarsi sui palchi di Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Belgio e infine Italia. E tra Padova, Avellino e Messina, eccoli lo scorso giovedì live al Forte Fanfulla di Roma.
Le voci della foresta si manifestano nei vocalizzi di Seth, per trasformarsi in un canto che sembra provenire dal sottobosco per arrampicarsi sugli alberi e arrivare su, in cima, tra le fronde, “Scaredy”, dove magari John può sussurrare qualcosa alle stelle con la sua voce limpida, e saltare di nuovo giù per unirsi ad una marcia avventurosa tra le “Murky Waters”, in compagnia del suo amico, lasciando scanzonatamente le impronte sulla neve, “One foot” dopo l’altro.
Folli esploratori delle liriche – già Faergolzia era stato descritto da Regina Spektor come “uno degli scrittori più creativi ed unici” –, ma anche vivaci ed espressivi performers. Muovono ogni arto, suonano con il corpo. Battono le mani, colpiscono la grancassa. Suonano con i piedi, nel vero senso della parola – basta dare un occhio alle caviglie di Ludington “zavorrate” con giri di sonagli e conchiglie –. Si aprono in un sorriso timido, stupendosi con uno dei ragazzi lì ad ascoltarli di quanto “Prisencolinensinainciusol” sia “pretty famous” qui.
Ammorbidiscono le melodie e lasciano che i toni si estendano con “Curupira”, fino ad addolcirsi con “Anouk”, un brano che Seth dice di aver scritto pensando alla figlia di 6 anni, seguito poco dopo da Ludington che ha in serbo lo stesso per la sua progenie. Indossando una giacca con una margherita – disegnata – che fa capolino dal taschino sul petto, Faergolzia crea i suoni di fronte a noi, quasi come se avesse il suo tesoro davanti agli occhi e stesse escogitando un modo, un’espressione, una movenza per divertirla. Viene quasi naturale pensare a una stanza piena di fantasia, tra risate sincopate e giochi.
John e Seth sono “voce e strumento” insieme. Stupisce il secondo, quando dopo un cenno complice col primo, si porta veloce dritto dritto davanti alla fila di puff ai piedi del palco, e recita – quasi rappando – un fiume di parole senza sosta. Intanto “giocano” spesso a cambiarsi le chitarre tra loro, a inventare ed imitare suoni con la bocca, a campionare e sperimentare sequenze improbabili, proponendo pezzi del loro album (“Fabric”, “Habits Dissipate”, “Lah Lee”, “Devil in the Washtube”, “Ivy, Rice and Moss”, “Geezer”) e una manciata di altri “inediti”.
Piace osservare questi due artisti mentre si scambiano occhiate sincronizzate, rispettando un codice tutto loro, ma non dimenticando di coinvolgere “timidamente” il loro pubblico, tra una battuta, un tutt’altrocheretorico “Noi abbiamo realizzato un altro paio di canzoni… vi andrebbe di sentirle?”, e un “Americanized Grazie”. Come quando, tra una canzone e l’altra, il bicchiere di una ragazza, poggiato a terra, cade, e un sorridente Seth coglie l’occasione per chiederle se vuole unirsi alla band.
Tra un “ouch” e un “pompom” cantano freneticamente della fatica e della passione per il loro lavoro. Scene di vita estrapolate durante i tour, quando si sale e scende continuamente dagli aerei, o di quella volta che tra una data e l’altra in giro per la Germania, durante il suo day off Faergolzia pensa con “Rubberband” al “very bad scheduling” che lo fa sentire lanciato a molla da un punto all’altro del Paese.
I Forest Creature si dimostrano una double-one-man-band energica e originale. Che entusiasma, fino alla fine.