La “Mala” economia delle parole di Devendra
Minimalista, carezzevole, surreale: è tornato Devendra Banhart. Ma qualcosa è cambiato
di Valentina Palermi
Lo ricordavo come quell’artista un po’ hippie e vagabondo dai lunghi e corvini capelli arruffati di “Santa Maria De La Feira”, il cui successo era imbrigliato in una spirale discendente in seguito a dei lavori poco convincenti. Oggi Devendra Banhart si presenta con un nuovo look – che fa l’occhiolino al Mission District di San Francisco –, 14 nuove tracce – uscite lo scorso 12 marzo –, una fidanzata – la modella e fotografa Ana Kraš – che ha influenzato (a quanto pare non poco) il suo lavoro.
Già, perché “Mala” – questo il titolo dell’album, ascoltabile ancora in streaming, e distribuito dalla Nonesuch, label di artisti come Björk, The Black Keys o Caetano Veloso – prende il nome dal vezzeggiativo – in lingua serba – con cui spesso la bella Ana si rivolgeva al cantante: una parola che in spagnolo ha un accezione negativa, mentre in gaelico significa “busta di plastica”, e che invece per loro – e ora anche per noi – vuol dire tenero, piccolo, tesoro.
Un omaggio alle lingue latine e allo spagnolo, quello delle sue origini sudamericane. Non tanto per il significato delle parole, ma per il modo con cui le stesse vengono interpretate e usate, in maniera essenziale, proprio come “Mala”. Un termine breve, ma che racchiude in sé molteplici universi. Un lavoro al contempo minimalista, zeppo di trasversali e generiche “riflessioni quasi nichiliste e prive di speranza sulle relazioni amorose” – nulla a che vedere con la sua esperienza –, ma ricco di influenze.
Indie rock, psych e avant folk, e quelle sonorità so 60’s e so 70’s che l’hanno identificato nella “New Weird America”, e fanno impazzire tutti coloro che cercano di incasellarlo in uno o più generi, riecheggiano nella languida chitarra elettrica di “Daniel”, e nell’ostile e sincopata “Taurobolium” – l’altare della tradizione pagana sul quale un sacerdote vestito di bianco svolgeva i riti sacrificali –. E poi salsa, merengue, cumbia, bossa nova che riempiono gli episodi della sua infanzia a Caracas e danno il ritmo a “Mi Negrita” e “Mala” – dove torna a cantare in spagnolo –, e ancora in “The ballad of Keenan Milton”, pezzo strumentale dedicato allo skater, ammirato da Banhart, e morto nel 2001 in un insolito incidente.
Gioca a riconciliarsi con la sua dolce metà in “Your fine peeting duck”, dove candide note e i “doo-wop” della vertigine d’amore, lasciano il posto al tedesco sulla base di atmosfere “french touch” sfacciatamente prese dalla dance anni ’80, le stesse che condiscono anche “Cristobal”. Suoni naturali, uccellini cinguettanti, una corda di chitarra fatta roteare nell’aria, abbassati di varie ottave e incisi su un registratore “Tascam” recuperato in un banco dei pegni, per ottenere synthetici sperimentalismi mutuati dalle origini dell’hip hop e inseriti in “Won’t you come over?”.
La sua voce è delicatamente ipnotica in “Golden girls”, che apre e cattura con il suo loop, convincendo ad arrivare fino in fondo a “Won’t you come home”. In mezzo c’è ovviamente spazio per i reef dondolanti e luminosi di “Never seen such good things”, i farfuglianti pensieri di “A gain” e gli effetti distorti dall’aria vintage di “Hatchet wound”).
I suoi testi si confermano spesso surreali. Ne è la prova “Für Hildegard von Bingen”, scritta per la santa tedesca del XII secolo, ricordata per il suo ruolo di intellettuale, quasi una “protofemminista” nel Medioevo, dedita alle molteplici attività di cosmologa, naturalista, drammaturga e soprattutto musicista. Ascoltando nelle sue ricerche alcuni suoi brani riproposti, Devendra ha cominciato ad immaginarla in chiave moderna e ironicamente sopra le righe, mentre fugge dall’abbazia, da quella Berlino dove tutti la conoscono – ma solo perché il suo volto è sulle scatole di biscotti biologici e sulle bustine del the –, per raggiungere San Francisco e diventare una veejay di MTV, per passare finalmente gli AfriKa Bambaataa e comunicare al mondo il suo messaggio.
Ora aspettiamo solo che anche lui faccia qualcosa di simile, girando leggero tra una tappa al Lucca Summer Festival e al Rock in Roma, rispettivamente il 25 e il 26 luglio.
Che dire, decisamente lunatico e genuinamente burlone Devendra Banhart. Ma allo stesso tempo un personaggio poliedrico e talentuoso, che ha saputo evolversi per arrivare ad una forma di essenzialità artistica per cui “less is more”.