La ricetta del calcio fatto in casa
Non sempre è necessario spendere centinaia di milioni di euro per vincere. Celtic, Borussia Dortmund e la nostra Udinese ci insegnano che si possono avere soddisfazioni sportive anche risparmiando
di Marina Cavaliere
@CavaliereMarina
Quando una squadra di calcio non scende in campo è a tutti gli effetti una società, un’azienda che deve far quadrare i conti per rimanere in attivo e scongiurare il rischio fallimento. Con il modello di calcio che abbiamo oggi, tra stipendi stellari, diritti tv e sceicchi miliardari, mantenere il segno “+” nei bilanci societari è difficile quanto fare un gol spalle alla porta.
Ma qual è la chiave del successo? Difficile a dirsi quando a contrapporsi tra loro sono due modelli così diversi nella gestione e nelle disponibilità economiche: da una parte club ricchi e potenti che fanno delle loro ricchezze il punto di forza. Dall’altra squadre che, consapevoli dei loro limiti, preferiscono mirare alla pianificazione annuale, al contenimento delle spese e alla crescita dei propri vivai.
In quanti abbiamo rabbrividito sentendo il costo record di 93 milioni di euro con cui Cristiano Ronaldo è stato comprato dal Real Madrid? In quanti abbiamo sgranato gli occhi leggendo le cifre astronomiche (pare si aggirino intorno ai 2 miliardi di euro) spese dal magnate russo e presidente del Chelsea, Roman Abramovich, dal 2003 a oggi? E la lista potrebbe andare avanti ancora per molto.
Ultimi in ordine di tempo sono stati i francesi del Paris Saint Germain che, alla faccia del fair play finanziario, per l’anno in corso hanno sborsato qualcosa come 100 milioni di euro per portare a Parigi gli ex rossoneri Ibrahimovic e Thiago Silva (per loro il Milan ha chiesto oltre 60 milioni), Lavezzi (costo stimato intorno ai 30 milioni) e il baby Verratti, il più economico visto che è costato “solo” 12 milioni di euro. Senza considerare i 96 spesi l’anno precedente per Pastore e compagni.
Del resto, lo sceicco Nasser Al-Khelaïfi l’aveva detto: è pronto a spendere 100 milioni a stagione per 5 o 6 anni di fila. Il tutto per un club che nel 2011 aveva degli introiti inferiori a quelli del Napoli.
Quindi, se non si hanno riserve di milioni di euro o sceicchi pronti a investire non si può fare calcio? Sicuramente non possiamo improvvisarci tutti presidenti con la stessa facilità con cui diventiamo allenatori ogni volta che gioca una partita la nostra squadra del cuore, ma i fatti dimostrano che si può gestire una società anche con disponibilità di gran lunga inferiori.
Un primo esempio ci arriva dalla Scozia, dove il povero ma bello Celtic (sconfitto dalla Juventus negli ottavi di finale di Champions League) è riuscito prima a battere i campionissimi del Barcellona (7 novembre 2012, Celtic – Barcellona 2-1) e poi a riportarsi ufficialmente nel calcio che conta. Come ha fatto? Semplicemente decidendo di non fare il passo più lungo della gamba. Consapevoli di non avere gli stessi mezzi delle altre squadre dell’isola, la società ha optato per una gestione paziente e rivolta al futuro a cui è stata affiancata la programmazione, di cui molti presidenti parlano ma poi in pochi riescono a realizzare.
Nei fatti significa che, da una parte teneva sotto controllo il monte ingaggi dei giocatori all’interno dell’organico e dall’altra comprava forze nuove nei mercati cosiddetti “sottovalutati”, ovvero Asia, Africa, America Latina e le serie minori del Regno Unito. Tutto ciò, continuando gli investimenti sul settore giovanile e su una fitta rete di osservatori che permettono la gestione di un modello economico a lungo termine e al riparo da eventuali scossoni del mercato.
Spostandoci in Germania, è il caso di parlare di quella che il Financial Times ha definito “un’esperienza più grintosa e locale, un’espressione del calcio dal volto umano”. Stiamo parlando del Borussia Dortmund, uno dei club calcistici tedeschi più titolati, la cui storia recente è stata però molto travagliata. Nel 2005, sull’orlo del fallimento, il club ha rivoluzionato la struttura societaria e ha investito in un processo di rinnovamento basato su talenti fatti in casa e su una gestione del club per cui i tifosi hanno un ruolo fondamentale di controllo. Gli allenamenti sono aperti al pubblico e i salari dei giocatori sono mantenuti piuttosto bassi. In questo modo, i prezzi dei biglietti rimangono accessibili per tutti, con il risultato di assicurare alla squadra tedesca le più alte medie europee di presenze allo stadio (si parla di quasi 80.000 tifosi a partita). Così, nel 2011, il Borussia Dortmund è tornato a vincere la Bundesliga e quest’anno ha conquistato l’accesso ai quarti di finale di Champions League.
Ma dobbiamo andare sempre così lontano per vedere casi di società di calcio virtuose? Non necessariamente. In Italia abbiamo l’esempio di Giampaolo Pozzo che, con la sua Udinese rappresenta, nel panorama desolato del calcio italiano, un esempio integro e di successo. All’interno della squadra dal 1986, Pozzo è riuscito a garantire quella stabilità che ha permesso all’Udinese di affermarsi come club di punta all’interno del calcio italiano e affacciarsi in più occasioni nel panorama europeo.
Mentre l’Italia è ultima nel rapporto Uefa, l’Udinese è tra le migliori in tutto il panorama calcistico grazie a un sapiente rapporto tra entrate e investimenti fatti per acquisti e pagamento degli stipendi. Non è certo un caso se negli anni Pozzo è riuscito, grazie alle sue strategie e ai suoi osservatori, a guadagnare gran parte della sua ricchezza e stabilità scoprendo talenti sconosciuti e poco pagati. Come dimenticare i vari Bierhoff, Iaquinta, Pizarro, Quagliarella e Di Natale che, vestendo la maglia bianconera, hanno fatto la fortuna propria e del club friulano.
Allora non è sempre necessariamente vera l’equazione “più soldi uguale a più successo“. Questi esempi ci hanno probabilmente dimostrato che lì dove mancano fondi miliardari, si sopperisce con fiuto imprenditoriale, lungimiranza ma soprattutto passione e amore per quello che si sta facendo. E poi si sa, le cose fatte in case hanno tutto un altro sapore.