Il rituale dei colpi di Stato
Si susseguono e ripetono da anni, si rompono i cancelli dei palazzi del potere per darsi bruscamente il cambio. La Repubblica Centrafricana è nuovamente in divisa da guerra civile.
di Martina Martelloni
Nessuno sbocco sul mare, profonda foresta a sud e sconfinata savana nel centro e nord del territorio. Nel cuore rosso dell’Africa nera si lotta ancora per trovare una quiete mai assaporata dal 1958, anno d’indipendenza della Repubblica Centrafricana.
Poche settimane fa, mentre il mondo e l’Europa tremavano per gli esiti finanziari dell’isola di Cipro, i ribelli Seleka armati e fieri sono entrati nel Palazzo, nella capitale Bangui, ponendo fine all’era Bozizè.
A sua volta complice ed autore di un golpe di Stato, il generale Bozizè sfilacciava le fila del potere da circa dieci anni. Con orgoglio vantava l’aver strappato di mano al suo predecessore Patassè il governo della Repubblica Centrafricana.
Generale e a capo di un forte partito di opposizione, Patassè destreggiò l’aria tagliente democratica proveniente da un’Europa vibrante per la caduta del muro di Berlino. Se ne impossessò cautamente attraverso la vittoria alle elezioni del 1993, dopo che per anni la popolazione locale gridò la fine di uno estenuante governo autoritario espressione dei regimi militari. Dacko, Bokassa, Kolingba; nomi, questi, che dal 1962 fino alle elezioni del 1993 scavalcarono il trono violentemente provocando stremanti terremoti sociali ed etnici.
Il nuovo presidente si chiama Michel Djotodia. E il 31 marzo 2013, della massima carica istituzionale, se ne è tatuato l’incarico con una banale e propria autoproclamazione. Il colpo di Stato nelle viscere del potere, oltre ad aver provocato una fuga recordista all’ex presidente Bozizè (ora rifugiato in Camerun) non ha dimenticato di lasciare vivo e visibile il frutto più amaro e velenoso. Distruzione, morte, terrore puro in chi dal buio della notte al tepore del mattino ha vissuto o meglio rivissuto la guerra civile che incalza da anni nella Repubblica Centrafricana, uno dei Paesi più poveri al Mondo.
Quando lo stato fallisce, con se si trascina tutto. Civiltà, convivenza, rispetto, religione, culture. Un onda gigante che spazza via radici storiche di un territorio antico, dove l’uomo si presume sia esistito ancor prima dell’Impero Egizio. Qui non basta la Storia per poter parlare e poter testimoniare quanto, fin dal suo essere colonia francese, la Repubblica Centrafricana sia davvero stanca di fuggire da un pericolo costante e manualmente tangibile nonché visivamente penetrante.
La ragione del golpe, che per l’ennesima volta ha riportato in vita un mostro che mai se ne era andato, risale ad un patto di pace. Una stretta di mano tra il gruppo ribelle Seleka ed il governo Bozizè, accordo scritto che non ha mai visto la luce. L’ira e la delusione esplodono in tutta la loro essenza ed i ribelli imbracciano armi e minacciano la guerra. Così si fa il colpo di Stato, detronizzato il generale per non aver rispettato i patti di scarcerazione degli oppositori politici nonché la fine degli aiuti militari all’Uganda e Sud Africa, i Seleka annunciano governo di transizione per i prossimi tre anni.
Tre lunghi anni di attesa sotto un potere non voluto, o per lo meno non eletto come democrazia comanda. I numeri iniziano a salire. Sono quelli degli sfollati, dei cittadini in fuga, dei religiosi vittime di violenze da parte delle milizie. Saccheggi, furti, scontri. Si dorme male nella Repubblica Centrafricana ed è bene che se ne parli perché un tempo quella terra apparteneva forzatamente all’odierna europeista Francia e perché le sorti non possono essere lasciate al caso.
Il neo auto eletto presidente Djotidia, con microfono alla mano ha invitato gli esuli al ritorno in patria. Appello poco ascoltato da chi vive tremando ed è stanco di non sapere se sia la sua volontà a volere chi lo governa o se sono gli altri, pochi, in molto pochi a deciderlo per lui.