Prigioniero Politico del Teatro dell’Orologio: intervista a Daniele Timpano

Tempo di lettura 7 minuti

Non è solo per ricordare. È un’esperienza corporale e mentale, quella che Daniele Timpano sta effettuando rinchiuso nella cella, al Teatro dell’Orologio di Roma

di Caterina Mirijello

A 35 anni dalla morte di Aldo Moro, Timpano si rinchiude fisicamente fuori dal mondo per 54 giorni, proprio come lo statista, e esce dal suo rifugio solo per regalare agli spettatori il suo spettacolo ALDOMORTO54. Ogni giorno, per 54 giorni, perpetua il suo momento scenico che ne rappresenta  la sua liberazione, da una routine di reclusione, e la sua condanna mentale giornaliera.

fonte immagine:incertezzacreativa.wordpress.com

Fonte immagine: incertezzacreativa.wordpress.com

Le sue riflessioni su questo spettacolo, sul )momento storico visto con gli occhi di oggi e sulle modalità insolite che caratterizzano  quest’opera.

Qual è il vero spettacolo: quello che accade ogni giorno sullo stage del teatro o la tua quotidianità dietro le quinte del teatro? Perché la scelta di recluderti sotto lo sguardo di tutti?

Lo spettacolo vero non saprei dirti, sicuramente quello che avviene in scena è un concentrato, una sintesi, un attraversamento sia fisico sia intellettuale d 35 anni di materiali intorno al c.d. “Caso Moro”, visti senz’altro dal punto di vista, personale e generazionale, di chi guarda, un adulto di oggi che all’epoca era un bimbo e nulla si ricorda ma che ha ereditato lo stesso un corpus mitico sugli anni ’70, Moro, la lotta armata, l’estremismo di sinistra, che è stato elaborato dalle generazioni precedenti. La prigionia in diretta streaming è sia un allargamento di senso sia un attraversamento di quegli stessi 35 anni di immaginario fatto da me “fisicamente”, “corporalmente”, è una esperienza simbolica. Una condizione estremamente falsa, io auto-recluso allegramente dentro una cella falsa scenografata sul fondo della scena di un teatro che “gioca” a citare la cella di Aldo Moro così come l’abbiamo conosciuta dai racconti dei brigatisti-carcerieri e dai film sul caso Moro, ma anche uno stato estremamente reale di disagio. Tutto il giorno con la luce elettrica negli occhi, uno spazio limitato, condizioni igieniche non ottimali, il rischio di anchilosarmi, atrofizzarmi i muscoli per lo star troppo seduto, l’incredibile noia, il senso di solitudine, l’aspettativa che si crea durante il giorno del momento spettacolare serale o delle poche visite concesse in cella; e poi naturalmente lo spettacolo da fare, che è uno one-man-show di 1 ora e 40 molto impegnativo e stancante da fare tutti i giorni, dopo giornate trascorse davanti al computer a passeggiare senza sole e senza aria aperta in una sala un po’ umida e un po’ fredda a 10-15 metri sotto il livello della strada. Ed infatti le mie occhiaie e le rughe sulla fronte stanno progressivamente peggiorando.

Non pensi che essere recluso ma rimanere a contatto con il mondo esterno sia, di base, un controsenso?

Senz’altro è un paradosso. Che però mi pare fertile. Siamo già reclusi e sorvegliati e prigionieri nel nostro quotidiano, mi pare consequenziale esserlo nello stesso modo anche all’interno della cella. Oltretutto tutto ciò vuol avere anche un senso di ribaltamento e di critica (nel mentre lo incoraggia) al voyeurismo dello spettatore, che è entrato sempre più nelle abitudini di tutti.

Gli italiani hanno rovistato per 35 anni nella cella di Aldo Moro, una cella che non hanno mai visto ma sempre immaginato più o meno come gliela faccio vedere, con una familiarità e una curiosità e un interesse e un dolore tutti polarizzati intorno ad uno spazio immaginario che forse nemmeno è mai esistito per come ce lo siamo immaginati (noi non sappiamo niente, c’è da dirlo: né l’esatto gruppo di fuoco di Via Fani, né se Moro davvero sia stato prigioniero per davvero a Via Montalcini tutto il tempo… noi anzi ne sappiamo troppo, di tutte queste cose ed è durissima capircene qualcosa di definitivo).

Quello che abbiamo fatto è stato ricostruire, con Alessandra Muschella, uno spazio immaginario, poi mi ci sono messo dentro io, un attore-autore; con Andrea Giansanti abbiamo organizzato la possibilità del live-streaming, ed eccoci qui, eccomi qui: offerto alla bulimia visiva dello spettatore.

Partendo da quest’affermazione presente nel comunicato stampa esponici le tue considerazioni: Prigioniero Politico Del Teatro : teatro=mezzo politico Daniele Timpano = Prigioniero Politico quindi mezzo politico= prigioniero politico

In realtà è il teatro ad essere un prigioniero, in questa società in cui viviamo in cui stenta ad avere un ruolo riconoscibile, angolino marginale (specie il teatro contemporaneo) di una “cultura” che nel nostro paese è da tanto, da sempre e sempre più, l’estrema periferia della coscienza nazionale. Per non parlare delle difficoltà, ad esempio in una città come Roma, che invece avrebbe un bacino di utenza immenso, di convincere il pubblico ad andare a teatro. L’idea di teatro che tuttora ha il nostro paese è quella del teatro polveroso negli stabili, fatto dagli stessi protagonisti di 30-40 fa, o al più dai loro figli, che invecchiano e spariscono via via di Pirandello in Pirandello. L’idea che il teatro prenda posizione sul presente, parli del presente, o dal presente, non è passata mai, nonostante decenni di sforzi. Il teatro in sé, farlo, è un piccolo gesto politico. O di fuga dal mainstream? Non lo so nemmeno più, in questa fase di carriera. Senz’altro dubito che possa essere un “mezzo politico”. Il prigioniero è lui. Io sono prigioniero politico del teatro anche nel senso che sono proprio prigioniero all’interno di un edificio teatrale, come di un mestiere. Ma in questa marginalità, che stenta a partecipare (anzi: ad essere legittimata) nel già marginale dibattito culturale italiano, è possibile fare cose che tuttora – nonostante l’addormentamento generale, morale e intellettuale – se fossero fatte o dette in televisione, al cinema o sul palco del primo maggio, comporterebbero polemiche e denunce. E invece rimangono grida che – il più delle volte – si spengono sotterra.

La tragedia Moro è avvenuta quando tu eri abbastanza piccolo da non poterla vivere con profondità e dovuta consapevolezza. Quando hai preso coscienza dell’accaduto? Che impatto ha avuto sulla tua vita?

Nessuno. L’ho appresa dal film di Giuseppe Ferara con Volonté. Nessun genitore o parente mi ha mai raccontato nulla di significativo o interessante, di quegli anni o di quel clima, fino a che non me ne son interessato per preparare lo spettacolo. Questa incommensurabile distanza da un fatto “storico” di cui mi sento pur figlio anch’io (e non sto parlando solo del Sequestro Moro ma di tutti i fermenti, anche positivi, che fino ai primi anni ’80 ancora animavano il nostro paese) è stato uno degli stimoli di partenza del lavoro.

In che situazione ti senti di interpretare maggiormente Moro: nell’Autoreclusione o in Scena?

Io non interpreto Moro, né in cella né in scena. In scena ci sono io, in cella anche. Sono io prigioniero del c.d. “Caso Moro”, se vogliamo dirla così, in questa cella 3 x 1, ma sono pur sempre io, un autore-attore quasi quarantenne che rivive “corporalmente” l’unica cosa che di quella esperienza si possa realmente rivivere su di sé: l’esperienza appunto corporale. In scena poi Moro lo incarno fugacemente in alcune immagini che il mio corpo compone sulla scena, ad esempio proprio nel finale del lavoro, ed incarno punti di vista anche contrastanti sulla vicenda e la riflessione pubblica che l’ha circondata. Ma non sono lui. Sono io che guardo il 1978 da questo punto scomodo e stagnate dove sono ora, nel 2013.

35 anni di notizie, libri, inchieste, film e quant’altro sul caso Moro. Che novità apporta la tua opera? Che verità nuove svela? E che sentimenti rimossi rimette in circolo?

Questo non me lo posso dir da solo. Sicuramente segnala un’esigenza di metter mano in prima persona su dei materiali, ancora tiepidi ma presto freddi, gelidi, morti per il venir meno progressivo dei vivi di allora, da parte di una generazione di “figli” che per anni – e tuttora – si è vista imporre una versione dei fatti, delle emozioni, un immaginario da parte degli adesso padri, se non nonni, se non morti. La verità non dipende da me, sarebbe dovuta dipendere dai 5 processi che si sono fatti e dalle 2 commissioni parlamentari. Non spetta ad uno spettacolo. Ad uno spettacolo, come a qualsiasi opera che sia degna di portar questo nome, spetta solo – nel momento in cui si confronta con un argomento vasto e delicato ed ambizioso come questo – il dovere 1) di avere cognizione di causa e conoscenza della materia, 2) di scansare le trappole della retorica e della pigrizia intellettuale, come anche le scorciatoie della furberia e del populismo che in scena sono sempre delle pericolose tentazioni, 3) di fare le domande giuste per il momento storico che si sta attraversando, che è inevitabilmente sempre quello da cui si guarda al passato, e di riuscire a far riecheggiare quelle domande anche nella testa degli spettatori, sperando si trasformino in rovelli, dubbi, curiosità ulteriori, pensieri che siano fertili e non consolatori od ottundenti.

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