Pierpaolo cantante, Pier Paolo poeta. Capovilla legge Pasolini
Lo scorso 10 aprile, all’Auditorium di Roma. Un evento per riscoprire l’arte, e riconoscere il nostro tempo
di Valentina Palermi
È il secondo giorno di eventi del My Festival, progetto ideato in occasione dei primi 10 anni del Parco della Musica dalla straordinaria Patti Smith. Nella Sala Petrassi, lei sta cantando insieme alla sua Family. Nicola Piovani e il concerto mitologico per strumenti e voci dei “Viaggi di Ulisse” nella Sinopoli. Nel Teatro Studio, Pierpaolo Capovilla dà vita al suo tour teatrale dove versi e musica incontrano contemporaneità e denuncia, attraverso la riscoperta della dimensione poetica di Pier Paolo Pasolini con un reading in tre atti: “Ballata delle Madri”, “Una Luce”, e al centro “La Religione del Mio Tempo”.
Con il “Teatro degli Orrori”, il cantautore di Arese si è ispirato a quel teatro della crudeltà di Artaud che aspirava a fondere gesto, movimento, luce e parola, ritenendo conclusa ormai la tirannia che il testo esercitava sullo spettacolo. Oggi, come già accaduto nel 2011 – con un reading musicale di Majakovskij in due atti, accompagnato da Giulio Favero – e nel 2012 – insieme a Matteo De Simone, le letture tratte dal suo romanzo “Denti guasti“, e le musiche di Daniele Celona –, forte la necessità di conferire maggiore centralità ai testi e alle parole già spietate di Pasolini, che “scrisse questi versi nel ’58..’59.. e li pubblicò nel ’61”, raccontando della “mutazione antropologica, della resistenza, dell’abbraccio del neo-capitalismo”.
Quello a cui assisto è un incontro intimo, anticipato da un silenzio religioso. Una telecamera riprende dal basso il volto di Capovilla, che appare su un grande schermo, proprio sopra di lui. Da lì, il suo sguardo punta dritto alla platea, dando vita ad una relazione, quasi fossimo tutti “giovinetti sgraziati”, impietriti ad ascoltare da un adulto l’impietosa analisi di una società in cambiamento, dalla morale incerta e preoccupata solamente d’ostentare narcisismo.
“Mi domando che madri avete avuto”: la voce nasale scuote improvvisamente la sala e rimbomba sillabando le parole di colui che fu “bambino in altro modo/ignaro di altra vita” che non fu la sua, commuovendosi al desiderio di volersi diverso per ‘pietosa’ nostalgia, e colmo di paura come un piccolo “che piange non solo per quello che non ha avuto, ma per quello che non avrà”. “Egoismo, mistificazione, capriccio, durezza” dell’“infantile pianto”, che con la sua tenerezza fa trascendere Capovilla e Pasolini all’“Usignolo dolce e latente della Chiesa Cattolica, sacrilego e religioso”.
“L’arte di perdersi di un ragazzo”, ci fa percorrere chilometri tra i luoghi e i non luoghi di Ostia, di Bologna, di Casarsa e del Friuli, per poi percorrere i viali di Villa Sciarra e del Gianicolo, le strade di Torvaianica, e Piazza del Popolo, fino ad arrivare sulle rive della Moscova, ed entrare nella Basilica di San Basilio.
Parla di volti, persone, figure, quelle “mille facce” che “ha la storia”. Un Pasolini terreno si mostra a noi. Non su di un palco, ma con un messaggero che al nostro livello parla di realtà e di Religione, quella di una “Chiesa che è lo spietato cuore dello Stato”, sgranando gli occhi per osservarci meglio. Imponenti, dall’alto sembra guardino te, mentre dalla propria poltrona in platea la prospettiva lo rende così piccolo.
“È così che vi sorprende questo mondo” – proprio come fa Pierpaolo alzando la propria voce ferma, fino a un tono chiaro che ‘stressa le note’ –, con una contrapposizione tra il ‘popolo’ – confinato in antri, al di là dei ponti, nelle borgate – e la ‘società neocapitalistica’, che nei palazzi confonde il progresso con lo sviluppo. Tra il giorno di un sole che arde e la notte fredda dei confini della città, c’è spazio anche per il contrasto di chi “in nome di un Dio nato, vuole essere il padrone”, tra il clericalismo volgare e ipocrita, tra martirio e ‘irreligiosità’, l’aristocratica sordidezza dei sottoproletari e la “volgare fiumana dei pii possessori di lotti”.
Si spegne la luce nella sala e “resta la viltà, che fa l’uomo irreligioso, toglie forza al cuore, calore al ragionamento, rende prudente, interiormente impaurito”, insieme a “la tristezza di chi è morto senza vivere”.
“Ma non c’è mai disperazione senza ormai Dio” – silenzio – “speranza”. Con questa parola, Paki Zennaro – “alle tastiere, alla chitarra e diavolerie elettroniche” – e Pierpaolo Capovilla – “alle urla e allo sbraito” –, salutano noi e ringraziano Pierpaolo Pasolini – “Lui sì!” –, che è riuscito a conquistare il cantautore , scrivendo ieri questi versi, oggi dedicati a noi.