Il lavoro fa salire l’audience?

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Sempre più programmi televisivi trattano un tema così delicato, riuscendo (diverse volte) a trasformare in profitto anche il lavoro che non c’è

di Rosa Fenoglio

lavorotv01Dalle sette e trenta del mattino fino alla mezzanotte inoltrata non c’è trasmissione che non voglia trattare la questione del lavoro. I palinsesti televisivi fanno a gara nell’ospitare il licenziato di turno, il precario a vita o la parente più prossima dell’ultimo suicida.

Appare superfluo aggiungere come, nella stragrande maggioranza dei casi, dietro alla presa in carico dell’argomento occupazione si nascondano unicamente il desiderio e il bisogno dello share. La televisione in questo senso ha raggiunto la tappa più recente del percorso di mercificazione del lavoro.

Nell’Ottocento Karl Marx aveva descritto con stupefacente lucidità le dinamiche del capitalismo e, dunque, anche la trasformazione che il lavoro aveva subito all’interno del nuovo sistema economico. Il lavoro era diventato una merce al pari di tutti i manufatti che entravano nel sistema di mercato e il suo prezzo veniva stabilito da precisi meccanismi economici, principalmente dalla legge della domanda e dell’offerta. Il fatto che il lavoro fosse vita, nel senso di espressione vivente della persona, non influiva minimamente sulle sue articolazioni economiche.

Ora il processo di spettacolarizzazione messo in atto dalla televisione è riuscito a sfruttare appieno anche la caratteristica “vitale” del lavoro e ha trasformato in profitto anche la crisi economica più grave degli ultimi anni. Più la mancanza di un posto fisso, o anche precario, produce situazioni drammatiche, che aldilà dello schermo si traducono in quadretti dipinti in toni patetici e melodrammatici, più l’indice di ascolto aumenta. E così il lavoro, o meglio la sua assenza, riesce a essere magnificamente sfruttato. Sotto certi aspetti la dinamica televisiva possiede una sua propria genialità, quasi contadina: del maiale non si butta via niente, specialmente in tv.

Anche nei casi in cui la volontà che anima il programma è denunciare o semplicemente descrivere l’effettiva realtà del Paese e, nello specifico, dei lavoratori che al suo interno vivono, la caduta nel lacrimevole è sempre potenzialmente in arrivo. Ci si riferisce in questo caso a trasmissioni come Servizio Pubblico, ideate e condotte da professionisti preparati e sicuramente mossi da ottime intenzioni, ma che troppo spesso riescono solo a parlare alla pancia degli individui e non alla loro razionalità. Se in due ore di trasmissione anche solo 10 minuti vengono dedicati a pianti e disperazioni varie e il restante tempo a un dibattito razionale e costruttivo, saranno quasi sicuramente quei dieci minuti e colpire l’attenzione e a sedimentarsi nella memoria.

Fortunatamente ci sono anche programmi che cercano di portare avanti punti di vista positivi ossia che informano i telespettatori delle possibilità che esistono all’interno della realtà lavorativa del Paese. Un esempio su tutti, la rubrica “Fuori Tg” in onda su Rai Tre, riesce sovente a focalizzare l’attenzione su spazi nuovi che si possono aprire a livello occupazionale e su incentivi indirizzati a figure professionali oggi più richieste rispetto al passato.

Il periodo che stiamo vivendo è difficile sotto molti punti di vista e trovare un equilibrio tra denuncia della realtà effettiva e possibilità di cambiamento è certamente impresa ardua. Proprio su questo punto la televisione dovrebbe riuscire a proporre un “giusto mezzo”, evitando di cavalcare l’onda del disagio e la sua spettacolarizzazione.

masterchefOltre ai programmi d’informazione, oggi la possibilità di trovare un’occupazione degna di questo nome anima anche format di successo come Masterchef.

La clamorosa affermazione di programmi di questo tipo sembra essere legata anche all’attuale crisi del lavoro, che non  include soltanto la disoccupazione, ma anche le pratiche clientelari che in Italia determinano quasi totalmente la possibilità di raggiungere un impegno occupazionale degno di questo nome. In questo senso la vittoria all’interno di un programma televisivo sembra offrire la possibilità di affermazione lavorativa e personale all’interno di un sistema che appare negarla ai più.

Da spettatrice è possibile cogliere l’aurea di sogno che circonda le dinamiche del gioco. All’interno del programma ci sono tre giudici, severi ma giusti, che valutano le prestazioni dei concorrenti. Il più bravo, ossia colui o colei che meglio riesce a svolgere il compito richiesto, vince.

Forse Masterchef rappresenta l’esempio più alto di meritocrazia disponibile attualmente in Italia. E non è esattamente un modello positivo.

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