Quando la violenza è la cultura dominante
In India si cerca di reagire alle ripetute ondate di violenza, ma l’abuso su donne e minori è un problema culturale non soltanto indiano
di Guglielmo Sano
Quando si esaminano e si prendono in considerazione culture diverse per tratteggiare comparazioni e confronti, bisogna essere cauti e stare attenti a falsificazioni ed errori di prospettiva. Noi siamo figli della “cultura” occidentale (semplificazione dovuta allo spazio a disposizione) quindi, per quanto possiamo studiare, interessarci o addirittura fare esperienza delle visioni della vita “altre”, vivremo sempre con questo tipo di riferimento inconscio.
Possiamo manifestare apertura e comprensione per le usanze, i modi e i convincimenti altrui, ma mai potremo acquisirli e immedesimarci in essi fino in fondo. Semplicemente perché non siamo gli “altri”, ma siamo “noi”. E in questa frattura, di cui purtroppo constatiamo l’esistenza e la consistenza ma che nello stesso tempo ci appare come costitutiva delle relazioni umane prese in se stesse, ci dobbiamo muovere. La frattura tra la nostra cultura e quella degli altri purtroppo esiste: se non possiamo colmarla, sicuramente possiamo esplorarla, cercando di gettare dei ponti, provando a non fare troppi danni.
Davanti alla differenze che possiamo facilmente riscontrare tra la nostra e le altre culture ci troviamo di fronte a una situazione a dir poco scabrosa. Sebbene alcune tradizionali usanze che riguardano le donne siano ritenute discriminanti da noi, in realtà appartengono a quel patrimonio di usi e costumi che dobbiamo rispettare. Per esempio: la donna musulmana in molti casi considera il “velo” un tratto identitario fondamentale e il fatto che la legge del suo paese di adozione le imponga di non indossarlo, viene sentito come un provvedimento ingiusto e razzista. Ma il risvolto della medaglia presenta il conto nel momento in cui ravvisiamo la vicinanza tra la nostra cultura e quella “altra” in tratti ben più violenti, devianti e deviati. La violenza sulle donne è un tratto che la nostra cultura condivide con molte altre, tra cui quella dell’India. Qui non si vuole giudicare, semmai evidenziare un triste tratto comune.
Gli stupri in India sono aumentati del 678% dal 1971 ad oggi – e il 25% di essi coinvolge minorenni. A 4 mesi dallo stupro di Nirbhaya, la ragazza vittima di sette uomini che morì a causa delle lesioni subite, negli ultimi tempi la violenza si sta diffondendo contro i bambini più piccoli. Le vittime degli ultimi giorni sono giovanissime, di 6 e 5 anni addirittura l’ultima. Nel paese si diffonde lo sconcerto e le manifestazioni di malessere diventano sempre più pressanti, ma a monte c’è un problema culturale. Una società divisa ed ermetica, una povertà diffusa da un lato e mancanza di concretezza nella repressione del fenomeno da parte di istituzioni e politica dall’altro.
Arundhati Roy, scrittrice indiana di fama mondiale, parla di “cultura dello stupro”. In India, oltre ai recenti casi che hanno sconvolto l’opinione pubblica, lo stupro è una pratica comune anche nella vita coniugale. Non esiste nel codice penale indiano il reato di “stupro matrimoniale”, la donna è completamente a disposizione del marito-padrone – addirittura quando le donne arrivano al pronto soccorso sanguinanti per le violenze subite, i medici si complimentano con i mariti aguzzini per una tale manifestazione di potere e virilità.
La colpa dello stupro è sempre della donna, al massimo viene divisa a metà con i delinquenti che hanno perpetrato la violenza. Le scuse vanno dagli abiti troppo succinti al fatto di aver bevuto della vodka.
La realtà è naturalmente ben diversa, per questo la polizia occulta spesso le prove o le manomette – come nel caso dell’autobus scenario della violenza subita da Nirbhaya, ripulito per proteggere i malviventi che avevano abusato di lei. Anche in questo momento la polizia è oggetto di numerose critiche e sospetti, non avendo accettato la denuncia di scomparsa della bambina di 5 anni, che poi si scoprirà essere stata seviziata per due giorni, già il 15 Aprile. Sembra addirittura che la polizia abbia offerto del denaro ai genitori per comprarne il silenzio.
L’appartenenza tribale e castale impone leggi e rituali paralleli a quelli dello Stato. Le istituzioni indiane non contrastano nemmeno i risvolti più crudi di questi antichi retaggi, secondo i quali la donna ha sempre la peggio: le è vietato avere un’autonomia e un’indipendenza sessuale e allo stesso tempo non può nemmeno rifiutarsi di avere rapporti – il consenso è dato per scontato, il rifiuto non è un’opzione possibile.
Non solo la tradizione porta con sé questo messaggio, persino la cultura contemporanea lo rafforza: la musica rap indiana e il mito bollywoodiano, infatti, giustificano e mitizzano la violenza verso le donne. Non importa il parere della donna, non importa come tu ottieni quello che vuoi da lei: anche se si rifiuta di concedersi in realtà lei ti vuole e tu devi solo prenderla. Anche con la forza – tante scene del cinema indiano riflettono questa oscura coscienza.
Eppure l’induismo è una delle religioni che maggiormente esalta la donna e il suo ruolo nella creazione. L’India già nel 1966 aveva un premier donna: Indira Ghandi. Il paese spende molto denaro per la ricerca tecnologica e nucleare, è una potenza mondiale emergente, continua a esportare filosofi, economisti, ingegneri, uomini politici di grande caratura. Ma al momento tutto ciò sembra solo il rilesso di un’anima cattiva e spaventosa.