Un sogno in frantumi
Tradito dai “cento” che egli stesso ha portato in parlamento, Bersani pone fine alla sua “corsa” e rassegna le dimissioni
di Alessia Ricci
Contro di sé aveva il fatto di essere stato un comunista (seppur migliorista), invece, è riuscito a far dimenticare (e a dimenticare) questa sua appartenenza ideologica, proponendosi come il presidente di tutti. Più del 90 per cento degli italiani pare avere apprezzato l’operato di Giorgio Napolitano, rieletto Capo dello Stato.
Certo è che questo secondo mandato rappresenta una sconfitta, per non dire un naufragio, per la sinistra italiana, espressione manifesta del suo panico e della sua mancanza d’immaginazione. Incapace di mettersi d’accordo su un candidato, Bersani e il Pd hanno dato prova della loro mediocrità.
Dopo settimane di suspense sul misterioso candidato al colle, Bersani estrae dal cilindro il nome di Franco Marini. Ex sindacalista ed ex presidente del Senato, Marini viene subito percepito come il simbolo dell’inciucio, il Presidente del salvacondotto che il Cavaliere, infatti, accetta con piacere.
Il nome di Marini non tiene affatto conto dell’esigenza di cambiamento emersa dal risultato elettorale e che da giorni si manifesta nelle piazze. Bisogna dire che non tiene nemmeno conto del malessere interno al Pd; Renzi da sempre si era opposto al nome di Marini, e così, i “renziani” si affrettano a dichiarare che non l’avrebbero votato. Marini doveva essere il compromesso “numericamente” più premiante, invece, è fumata nera anche al secondo scrutinio. Il più votato è Stefano Rodotà, con 230 voti, che però non raggiunge la soglia dei due terzi dell’Assemblea, pari a 672 voti. Oltre 400 le schede bianche.
Si cambia rotta, e viene proposta la candidatura di Romano Prodi. Certamente non il nome della svolta, in cui tanto si sperava, ma almeno un nome inviso al cavaliere che fugava ogni dubbio su possibili governicchi e larghe intese. Ma per poter eleggere il professore bolognese non bastavano i voti di un centrosinistra compatto, anche se costituiva, quantomeno, il presupposto fondamentale. Non erano sufficienti per ottenere la maggioranza semplice, ma almeno sarebbero stati ad un soffio dal traguardo: 495 i voti che dovevano confluire sul nome di Romano Prodi. Ne ha avuti ben 100 in meno.
A Prodi servivano una trentina di voti oltre a quelli del centrosinistra. Ora escludendo il Pdl, che ha adottato la tattica dell’Aventino, i voti per Prodi dovevano provenire da Scelta Civica, che però è rimasta compatta sul nome della Cancellieri. Altri voti sarebbero potuti convergere dal M5S: si sperava che molti grillini, scongiurata l’ipotesi Marini, avrebbero potuto vedere di buon grado il professore bolognese, che era pure rientrato (anche se tra le ultime posizioni della “Top Ten”) nelle “Quirinarie”. Invece non solo Rodotà ha avuto tutti i voti dei M5S, ma ha raccolto oltre 50 voti in più.
In realtà, già circolavano voci di una fuga di voti, proprio dalle compagini che avevano presentato Prodi con una acclamata unanimità. La stima, però, si orientava intorno ad un massimo di 30 voti tra il Pd e Sel (ancora affezionati all’idea Rodotà Capo dello Stato).
A pesare nel Partito Democratico sono state controversie di corrente, vecchi dissapori con l’ex premier e qualche disinvolto calcolo per arrivare ad un altro nome nel caso Prodi non fosse passato.
Venuta meno anche la candidatura di Prodi, Bersani si rende conto di essere giunto al capolinea. Le sue dimissioni costituiscono un gesto che va ben oltre la fine di una segreteria. Probabilmente il Pd è entrato in una fase in cui è necessario fare i “conti con la storia” e con quello che molti hanno definito “l’equivoco” del Pd. La crasi tra i post-comunisti e i post-democristiani di sinistra si è rivelata solo un ripiego, anche poco incisivo, del vecchio catto-comunismo italiano.
Dalla “svolta della Bolognina” per il vecchio Pci e dalla “liquidazione” di quello che restava della Dc, sono confluiti all’interno del Partito Democratico più i difetti che i pregi di due grandi tradizioni storico-politiche. Bersani, per un anno e mezzo, mentre Silvio Berlusconi era definito “politicamente morto”, non è stato in grado di costruire un vero centrosinistra.
Si è cullato sulle “primarie” che sono rassomigliate più a marketing che a un reale dibattito politico. Convinto di vincere le elezioni, alla fine, di fatto ha perso.
Si è ostinato per due mesi a volere inseguire i voti “grillini” per formare un governo di minoranza, sollecitando una sorta di “moralizzazione della vita pubblica” e nel momento in cui, invece, è stato Grillo ad avanzare una proposta, gli ha preferito il suo nemico giurato. Così facendo Pier Luigi Bersani, fuori dai confini emiliani, ha dimenticato tutto il suo pragmatismo riformista. E il risultato era inevitabile.
(fonte immagine: www.diggita.it)