Il lavoro, la sicurezza e la moda
Il Bangladesh vive di lavoro delocalizzato da altri sul suo territorio, lavoro che spesse volte sa di morte. L’episodio del 24 aprile ne è testimone
di Martina Martelloni
Affannosamente ed irrefrenabilmente proseguono gli scavi, la ricerca a mani nude e con imponenti ruspe per riportare alla luce qualcuno di quei 3 mila dipendenti del settore tessile che in quel 24 aprile hanno visto il cielo grigio cadergli addosso. Le ultime, fredde cifre parlano di oltre 800 vittime dell’insicurezza nel mondo del lavoro
Quel palazzo è crollato perchè instabile, non a norma. Ma soprattutto, perché figlio di interessi più forti dettati da quanti tra la produzione viscerale e il controllo dei luoghi, dell’aria e delle condizioni di salute non hanno dubbi a cosa dare la priorità.
Su questa disumana vicenda, il crollo dell’edificio ad otto piani nella periferia di Savar – provincia della capitale Dacca – ruotano personaggi che oltrepassano i confini del Bangladesh arrivando fin qui, in Europa. Indagini ed inchieste parlano di grossi marchi internazionali, nomi che nella moda han fatto il loro successo e che da quel palazzo si fornivano di campioni d’abbigliamento – risultato del lavoro di mani, tante mani all’opera in nome della moda.
Quell’edificio non doveva e non poteva essere disposto per l’uso industriale che ne è stato fatto. Quegli otto dannati piani dovevano essere meno – cinque per la precisione – e avrebero dovuto ospitare uffici, non laboratori tessili. Agli arresti è immediatamente finito il proprietario del palazzo, Sohel Rana. Con lui, altre persone considerate responsabili dell’inadeguatezza dell’edificio saranno giudicate sul perché quel maledetto 24 Aprile gli otto piani non hanno più retto il peso del lavoro svolto fino a sbriciolarsi – trascinando a sé donne e uomini ignari di tutto.
Barcellona, città europea che oggi ha ospitato una manifestazione sindacale sotto la sede dell’azienda moda Mango, colosso che avrebbe ammesso l’acquisto di materiale proprio da quel Rana Palace. Con il marchio made in Spain, in realtà, se ne affiancano molti altri. Da Primark a El Corte Inglés passando per l’italiana United Colors of Benetton, firme di moda ma anche ordinatori di prodotti tessili provenienti da lì, da quel Bangladesh dove la manodopera costa meno, molto meno e molto più conveniente è da comprare, raffinare, etichettare, vendere ed esportare.
Il Bangladesh è uno di quei Paesi che vanta un primato dolce e amaro. E’ infatti tra i primi, se non sul gradino più alto del podio, per efficienza quantitativa nella produzione del settore tessile. Il confezionamento dei tessuti però comporta dati che pesano sulla coscienza di molti e riguardano gli incidenti e le precarie condizioni di lavoro.
Lo scorso anno altri due fatti di cronaca hanno insabbiato la reputazione del Bangladesh, due roghi in due edifici addetti alla manodopera. Anche li morti e feriti. Chi osserva da fuori e chi vive da dentro lavorando col tatto tessuti dai colori e materiali svariati, è stanco dello stallo attuale. Così in molti manifestano, nella stessa maniera ma con voce ancora più forte di quella dell’estate 2012 – quando scesero a scioperare decine di migliaia di lavoratori del tessile per esigere doverosi aumenti salariali.
Oggi, in Bangladesh, chi lavora anche 12 ore al giorno guadagna 18 euro al mese. Su questo e sulla vita degli operai, sarebbe giusto soffermarsi e snodare quel meccanismo così complesso e subdolo che cela la rete delle multinazionali dietro il crollo di un palazzo nella periferia di Savar, in Bangladesh.