“Confessions”: confessioni di un delitto
La vendetta ed il dolore secondo Tetsuya Nakashima
di Giorgia Braico
Dopo tre anni, arriva finalmente nelle sale italiane Confessions (Kokuhaku, 2010) di Tetsuya Nakashima, dall’omonimo romanzo del 2008 della scrittrice giapponese Kanae Minato.
Yuko Moriguchi, insegnante di scuola media, subisce la perdita della figlioletta Manami, che secondo il rapporto della polizia è annegata accidentalmente nella piscina della scuola dove insegna la madre. Quest’ultima, però, sa che la bambina è stata uccisa da due suoi alunni, e durante il suo discorso di commiato alla classe racconta la loro storia e la loro implicazione, rivelando inoltre agghiaccianti dettagli sulla propria vendetta.
Un film molto duro, che non lascia spazio all’amore, ma si concentra sul dolore della perdita, in ogni sua forma. Yuko perde sua figlia ed il compagno affetto da AIDS, Shuya (uno dei due giovani colpevoli) è stato abbandonato dalla madre quand’era piccolo, Naoki (l’altro ragazzo colpevole) e sua madre vivono praticamente soli mentre il padre e la sorella non sono mai a casa, Mizuki (una compagna di classe) sembra vivere una vita da emarginata e si identifica con la ragazza del “caso follia” che ha sterminato la propria famiglia con il cianuro.
Questo dolore, e di conseguenza la rabbia che si portano dietro tutti questi personaggi, sfocia in parole ed azioni che vanno spesso al di là di ogni naturale comprensione, ma che nelle loro menti hanno una senso, un moto di causa ed effetto che crea una particolare logica, morbosa, malata, dettata dalla sofferenza più estrema.
Così ecco spuntare in diverse scene una massiccia dose di sangue, che già nella cultura giapponese ha molteplici significati, a partire dai gruppi sanguigni che secondo una credenza popolare determinano la personalità dell’individuo e la sua compatibilità con gli altri; per non tralasciare il Kekkai, che nel folklore nipponico è rappresentato da un essere amorfo fatto di sangue creato durante un parto, che spaventa la gente nei villaggi.
Un po’ superandoli e un po’ riferendosi a questi richiami culturali, nel film il sangue ha una forte valenza simbolica: il sangue infetto del compagno che la maestra Moriguchi avrebbe messo nel latte dei due ragazzi, e che questi stessi usano come mezzo per difendersi o spaventare i compagni di classe che li perseguitano o la famiglia stessa; il sangue che segue agli omicidi che avvengono durante la storia, ripreso sempre nel momento in cui fuoriesce schizzando, come a voler simboleggiare la vita che esce dal corpo; la litania della madre di Shuya, che durante la sua infanzia e prima di abbandonarlo gli ripete continuamente che il proprio sangue scorre nelle vene del figlio, facendone così un ragazzo intelligente come lei, come per seguire la credenza sul gruppo sanguigno sopra citata.
Oltre tutto ciò, il film fa leva principalmente sul fattore psicologico, su ciò che si crede vero e reale, sulle paure, non solo di ragazzini appena adolescenti, ma anche degli adulti che li circondano. La particolarità di questa storia è che a prima vista tutti i fatti vengono mostrati alla luce del sole, nascondendo poco o nulla degli intenti di vendetta dei personaggi, ma in realtà, andando avanti, è tutto più sottile di quanto non sembri.
Il film, come accade anche in alcuni horror nipponici, è frammentato, analizzando di volta in volta il punto di vista e la storia di ognuno dei personaggi implicati, le loro “confessioni”. In questo modo è possibile notare come quella che viene rivelata verità secondo una persona, in realtà seguiva altri fini ed altri intenti per un’altra, mostrando la vecchia regola pirandelliana della verità relativa, di tante verità secondo quanti sono i punti di vista.
Un’opera che forse di primo impatto ad alcuni può sembrare una storia di adolescenti, ma che in realtà rivela molteplici aspetti e sfaccettature, che non sempre arrivano immediate, ma che sono comunque ben presenti e pronte a fuoriuscire al momento opportuno.
In tutto ciò, è sicuramente di aiuto e di accompagnamento una bellissima fotografia ed un potente stile di regia – che racconta il tutto con un sapiente mix di delicatezza, ferocia e disagio -, oltre ad una colonna sonora variegata che accosta senza troppa fatica pezzi classici a brani più rock, fino alla meravigliosa canzone dei Radiohead, Last Flowers.
Confessions è stato candidato e ha vinto diversi premi nei più importanti festival cinematografici e cerimonie asiatiche ed internazionali, rientrando anche nella prima lista dei nove candidati al premio Oscar al miglior film straniero nel 2011 ma rimanendo escluso in seguito dalla lista finale.