Il Divo Giulio, ovvero piccolo ritratto del Potere in Italia
Dopo la morte di “Belzebù” in molti tirano un sospiro di sollievo, ma solo la storia potrà consegnarci la visione completa delle vicende di cui fu protagonista: Molti segreti però se ne vanno con lui e rimarranno per sempre tali
di Guglielmo Sano
È difficile ricostruire e giudicare le vicende che hanno coinvolto un personaggio pubblico, nei momenti appena successivi alla sua morte. La difficoltà aumenta tanto più grandi sono state le responsabilità del personaggio in questione, tanto più importante è stato il ruolo da questi ricoperto.
La morte attutisce sempre le colpe mentre esalta i pregi e le virtù, svolge un ruolo di mistificazione avvolgente che solo il tempo permette di sostituire con lo sguardo della critica discreta e informata. Questo meccanismo ha funzionato naturalmente anche per quanto riguarda la morte di Giulio Andreotti, ma la “storia” già scalpita per dire la sua.
In attesa di poter affermare una scansione più approfondita dei fatti che l’hanno riguardato, la scomparsa di Andreotti, sopravvenuta dopo una lunga e avvincente esistenza, ci consegna il duro compito di analizzarne le scelte e ricostruirne i movimenti in uno dei periodi più difficili nelle vicende della nostra giovane Repubblica. Della recente storia d’Italia è stato indubbiamente spregiudicato protagonista, a dispetto di ogni opinione personale, ne è stato l’indiscusso “divo”, per qualcuno addirittura il “regista”.
Andreotti era uomo dall’eloquenza brillante, questo è unanimemente riconosciuto: cosciente dell’immenso potere di cui era in possesso, non aveva bisogno di ostentarlo, al contrario, aveva la necessità di ridimensionarlo agli occhi degli altri. La bravura nel “farsi sottovalutare”, da atteggiamento e inclinazione personale, caratteriale, assunse la forma di vera e propria strategia politica mano a mano che collezionava incarichi di governo.
Rientra pienamente in questa ottica l’uso che faceva dell’umorismo e della sagacia, mai troppo oscuro e mai troppo chiaro, si vantava però di “far arrivare sempre il messaggio a chi doveva riceverlo”, per gli altri era soltanto “l’indecifrabile”.
Le sue battute sono una miniera di informazioni per chiunque ne voglia abbozzare un ritratto biografico, i suoi motti di spirito hanno il fascino della spontaneità e dell’arguzia, forse gli si poteva riconoscere il merito di essere cosciente che la “cultura” non è nata con la “sociologia”, ammirava Marziale e del gusto epigrammatico del poeta romano aveva assorbito molto.
Quando gli ricordarono che la moglie di Roberto Calvi aveva detto essere proprio lui, l’Onorevole Andreotti, l’oscuro burattinaio che stava a capo del fenomeno liquido e oscuro che rispondeva al nome di P2, lui rispose: “Non mi sarei mai accontentato di essere a capo di una loggia soltanto”.
A tal proposito resta ancora il dubbio che l’immenso “archivio” di cui sempre si sarebbe vantato, non esistesse solo per modo di dire. Agli inizi degli anni ‘60 Andreotti era ministro della Difesa e dunque venne incaricato di distruggere i fascicoli dell’immenso dossier che gli uomini del Generale Di Lorenzo, capo del SIFAR (ovvero il servizio segreto militare), avevano redatto illegalmente, per poi sfruttarlo nel tentativo di golpe che si scoprirà doveva essere attuato nel 1964, ad opera dei Carabinieri ( vedi “Piano Solo”).
Più volte Andreotti verrà accusato di non aver, almeno non pienamente, svolto l’incarico, e di aver affidato al noto Licio Gelli il compito di conservare buona parte dei fascicoli. Potrebbero essere stati quei fascicoli l’arma in più, a favore di Andreotti, nelle successive vicende politiche?
Una tale versione renderebbe tutto più semplice, oltre a essere notevolmente suggestiva, tuttavia i fatti comprovati al momento non permettono di esporci più di così su questo versante.
Andando oltre le biografie ufficiali, Andreotti non sembra uomo da “gruppo”, da “partito”, da “loggia”. Fortemente individualista e restìo ad accettare regolamenti, regole, norme di statuti e giuramenti, probabilmente si sentiva investito di una missione divina.
Anche dando per buona l’interpretazione di Montanelli, che lo descriveva in contrasto con il suo “odiato” maestro De Gasperi, che in Chiesa parlava con Dio, mentre lui parlava col prete, possiamo ipotizzare che Andreotti si sentisse incaricato di un compito fondamentale da svolgere nella storia, che lo rendeva al di là del bene e del male, di tutto e di tutti, di qualsiasi autorità e legge.
Ultimamente viene esaltato per la sua capacità di andare oltre le ideologie, di prendere decisioni unicamente sulla base dei vantaggi che esse comportano, quindi Andreotti in prima battuta sembra essere un modello di pragmatismo e di realpolitik.
Andreotti forse non era “massone” e neanche a capo di un oscuro “noto servizio” che agiva dietro le quinte della storia ufficiale, ma di certo è stato 20 volte ministro e 7 volte capo del governo: quindi le sue responsabilità nella “notte della Repubblica” se non sono dirette, non possiamo esitare nel definirle, comunque, “oggettive”.
La “concretezza” della politica andreottiana non teneva conto delle vittime che una decisione poteva comportare, i caduti sul campo degli anni di Piombo, una vera e propria guerra civile a bassa intensità, erano un male necessario nella tattica che aveva come obiettivo quello di radicalizzare i gruppi di estrema destra e di estrema sinistra, isolandoli, in vista di un rafforzamento del centro, ritenuto affidabile e diretto referente delle alte sfere del potere economico, anche criminale, interno e dalle alte sfere internazionali, prime su tutti quelle della NATO.
Andreotti forse non è stato l’oscuro “regista” della “strategia della tensione”, ma sicuramente era il referente più accreditato per chi aveva l’interesse di renderla operativa. Andreotti probabilmente era autonomo più che eterodiretto, nell’attuare questo modello di destabilizzazione dell’ordine pubblico in vista della stabilizzazione dell’ordine politico, d’altronde lui si sentiva di quest’ultimo il garante, ancora meglio era egli stesso lo “status quo”.
Dall’omicidio di Pecorelli (voleva rivelare qualcosa sul legame con Gelli, anche il giornalista era della P2, o comunque con oscure e segrete trame criminali in cui era coinvolto persino il Vaticano?) fino alla prescrizione dei processi di Palermo (fino al 1980 aveva usato e si era fatto usare da Cosa Nostra), passando per la gestione del rapimento di Moro, lasciato morire per togliere di mezzo un pericoloso nemico ( forse lo stesso Moro, su invito degli americani a cui non piaceva, forse le BR che, con l’omicidio di Moro, determinarono il loro definitivo isolamento) tutta la sua attività ha dimostrato come si muovesse nella zone grigie del potere, scendendo a patti con tutte le forze che gli permettessero di mantenere il potere stesso immutabile e certo, sempre saldamente nelle sue mani e nelle mani di chi poteva essergli utile.
D’altronde “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, avrebbe sempre sostenuto.
Link:
Giulio Andreotti intervistato da Enzo Biagi
Giulio Andreotti intervistato da Sergio Zavoli