Un suicidio annunciato
Tra “Barca e traghettatori” il Partito Democratico appare sempre più in balia delle onde
di Alessia Ricci
Oggi la situazione del Partito Democratico non potrebbe essere più assurda. Il partito, o la sua coalizione, esprime le quattro più alte cariche dello stato e costituisce, nonostante tutto, la più forte componente in parlamento. Eppure è ben deciso a eseguire un suicidio programmato. Il Pd appare come un partito impotente, destrutturato, la cui unica immagine in questo momento è quella del governo. Il Partito Democratico ha preteso nei suoi vari stadi di evoluzione di trasformare vecchie sconfitte in futuri successi ma, perdendo nozione del passato senza acquisire nozione del futuro, negli anni ha finito per trasformare probabili successi in sicure sconfitte.
Un partito che è riuscito a mantenere tutti i difetti dei suoi predecessori storici – del Pci e della Dc – senza acquisirne i pregi. Un partito i cui leader riservano un’avversione autentica e sincera verso gli altri capi corrente invece che nei confronti dell’avversario politico. Un partito, insomma, in cui circolano talmente tanti rancori da rendere sicura la riuscita del suicidio. Una delle probabili ragioni della mancata scelta di andare alle urne nel novembre 2011 sta proprio nel fatto che esso non avrebbe retto alla prova proprio a causa delle divisioni interne.
Più in generale, i partiti di sinistra hanno smarrito il loro più eccezionale collante interno: la “sacralità” del fine da raggiungere. Così si era in grado di mettere a tacere gli egoismi e la resistenze dei singoli, così come le possibili degenerazioni corruttive. Il vecchio collante del glorioso Pci, dove i conflitti interni venivano mitigati da un forte senso di appartenenza ad una causa comune e dal rispetto di una disciplina di partito, è venuto a mancare. E’ necessario scoprire un nuovo trait d’union capace di rimpiazzare la vecchia “sacralità militante” nel contesto del rinnovato pluralismo.
Le basi del consenso popolare si sono ridotte, anche per effetto delle scelte neoliberiste, e così il Pd è diventato un partito che non promuove più l’azione sociale, ma produce messaggi e si avvale di tutti gli strumenti di marketing elettorale. In questo modo il partito fa mancare al paese una reale opposizione, una forza di sinistra, rappresentante degli interessi dei ceti medi sempre più colpiti dalle politiche recessive.
Il Partito democratico è divenuto ormai un partito moderato, saldamente ancorato al centro, pronto ad allearsi con la destra di Silvio Berlusconi in nome della “situazione d’emergenza”. Il governo di Mario Monti in fondo aveva lo stesso fine, con la differenza che i due partiti che lo sostenevano avevano preferito non esporsi troppo, mandando avanti dei “tecnici” apparentemente più neutri e presentabili.
Il Pd in questo momento si presenta profondamente spaccato. Appare ovvio che un partito del genere non riesca più a esprimere un segretario condiviso. Il problema non riguarda solo i leader nazionali. Anche nelle varie città si assiste ad una sorta di “lotte tra bande rivali”. A Roma, ad esempio, buona parte del Pd disapprova Ignazio Marino, e finisce per fare il tifo per Alfio Marchini. A Bologna, invece, il segretario dello storico circolo del Pd della Bolognina, si dimette perché in disaccordo con la linea politica.
La questione fondamentale sembra essere non quale segretario ma a quale corrente, a quale tribù deve appartenere il futuro leader. In sostanza non esiste più l’appartenenza al Pd, ma solo quella a una fazione.
Così sabato nell’Assemblea Nazionale, chiamata ad eleggere il nuovo segretario e a cercare di riunire i pezzi di un partito ormai allo sbando, è prevalsa la linea del “segretario traghettatore”, una figura autorevole e autoritaria che dovrà guidare il partito fino al congresso di ottobre, senza candidarsi. Alla fine si è raggiunto un accordo sul nome di Guglielmo Epifani. Ancora una volta non c’è stata unanimità sulla scelta, e la stessa idea del reggente esperto che svolge un semplice ruolo transitorio non è piaciuta a tutti.
A questo punto viene da chiedersi dove sia finita la sinistra. Non le sue ragioni o i suoi elettori, ma la sinistra in termini di spazi e di leadership. La sua assenza ormai si conta da anni, e in questo modo il paese è condannato ad altri 20 anni di destra al potere. Ed il male è anche per chi di sinistra non è.
(fonte immagine: eclittica.blogspot.com)