Di divieti e di scatti fotografici
L’eterno scontro tra il pubblico che vorrebbe fare (e a volte fa) foto nei musei e i musei stessi che si oppongono. In mezzo i social network, il copyright e i molto discussi danni alle opere causati dai flash
di Alessia Signorelli
@signorellialexa
“Vietato fare foto e/o riprese” ecco cosa recita il più delle volte il primo cartello che vediamo quando entriamo in un museo o in una galleria d’arte, o anche in un sito archeologico, insomma in qualsiasi luogo che abbia a che fare con arte e cultura e che sia sotto tutela. Quante volte, però, non appena ci siamo sentiti abbastanza sicuri, abbiamo comunque scattato una foto, di corsa, in modo tale da non farci scoprire? Alzi la mano chi non l’ha mai fatto in vita sua, almeno una volta nella vita. E’ l’eterna lotta tra il “bene”, rappresentato dalle regole e dal loro rispetto e il “male” che assume i contorni del “è una foto per me, per ricordo, non faccio male a nessuno.”
Questo in termini estremamente semplificati. Per qualcuno, invece, lo scattare foto nei musei e il condividerle sui propri profili social, da Facebook a Flickr, passando per Twitter e più recentemente per Instagram (anche se il trend principale in questo caso è rappresentato dalla cronaca fotografica dei propri pasti, abbelliti con un “sapiente” uso di filtri ed angolature. A quando la prima mostra tematica?) costituisce una vera e propria rivolta nei confronti dell’esclusività e della “ristrettezza” dell’esperienza museale: in poche parole un “riappropriasi” del rapporto con l’opera d’arte esposta, vissuto non più su una linea verticale ma orizzontale.
Negli Stati Uniti, molti direttori di musei, tra cui, per citarne alcuni, il Metropolitan Museum of Art, The Art Institute of Chicago e il MoMA si sono resi conto che, ora più che mai, con la diffusione di smartphone e tablet dotati di macchinette fotografiche incorporate era diventato pressoché impossibile impedire ai visitatori di fare foto (a rigor di logica, non è possibile e nemmeno troppo saggio impegnare il tempo degli addetti alla sicurezza nell’impedire lo scatto delle foto, perché questo potrebbe comportare il rischio di non accorgersi di pericoli ben peggiori) e così hanno reso possibile in molte aree (in alcuni casi, in tutte le aree) espositive fare foto senza incorrere a lavate di capo o sanzioni.
Il problema, anzi, i problemi che emergono sono però diversi e tutti sul tavolo della discussione relativa alla leicità dello scatto fotografico nel museo da parte dell’utenza. Per prima cosa, viene subito da pensare al fatto che “i flash rovinano i colori delle tele”; a questo proposito, è piuttosto interessante quanto riportato in un articolo contenuto nel sito Fotozona che riporta un articolo di Martin N. Evans nel quale viene “smontata” questa teoria, attraverso il ritrovamento di un esperimento condotto presso la Tate Gallery nel 1995.
Evans riporta che i risultati dell’esperimento non potevano essere presi per buoni in quanto le condizioni ricreate sarebbero state del tutto non corrispondenti alla realtà, a partire dalla distanza (90 cm) alla quale era stato messo l’apparecchio fotografico, la potenza del flash utilizzato e la frequenza degli scatti. Insomma, quello che doveva essere l’esperimento dimostrativo e definitivo contro le fotografie fatte ai quadri dai turisti, si sarebbe rivelato, secondo Evans controproducente e avrebbe invece dimostrato che i danni subiti dalle tele sottoposte allo stress del flash fotografico sarebbe niente più che una leggenda metropolitana. Il dibattito, comunque, in questo senso, resta ancora aperto.
Altra cosa: il copyright. Sì, ma di chi, visto che una larga maggioranza degli autori delle opere sono morti da secoli, il problema si porrebbe solo relativamente. Subentra quindi, il copyright del museo e/o galleria e dei cataloghi contenuti nei propri bookshop. E poi la sicurezza: troppa gente ferma a fare foto creerebbe ingorghi pericolosi…ma anche questo è discutibile. Insomma, non c’è niente di certo ed è tutto sulla graticola della discussione.
Quello che sappiamo è che, in Italia, contrariamente agli Stati Uniti, vige ancora una stretta “policy” di divieti sulle foto alle opere nei musei sebbene si stiano creando delle sacche di “rivolta”, come già accennato più sopra che, proprio in virtù del fatto che stiamo diventando una società “condivisa”, dove ogni esperienza è praticamente riportata nei network come Facebook o Twitter, tra l’altro usati anche dal 97% delle 1.200 organizzazioni d’arte americane (fonte Artnews) e da un grandissimo numero di altrettante istituzioni d’arte sparse per il resto del mondo, sottolineano quanto non abbiano più senso questo genere di restrizioni, che, comunque, vengono infrante su base quotidiana (un esempio di questa volontà di cambiamento è ravvisabile nell’iniziativa Invasioni Digitali, della quale avevamo parlato alla fine di aprile).
Come in tutte le cose, ci vorrebbe saggezza, capacità di gestione e rispetto da entrambe le parti; ma finché il pubblico sarà relegato al semplice ruolo di “visitatore” appunto, il cui contributo alla fin fine non è che meramente numerico, non si potrà arrivare ad alcuna mediazione sensata né, tantomento, ad alcuna soluzione condivisa.