Elezioni di Roma: intervista a Marco Furfaro
Abbiamo parlato del futuro della Capitale con l’esponente di Sinistra, Ecologia e Libertà, a pochi giorni dalle elezioni per il nuovo sindaco: “La priorità è cambiare il volto di Roma, una città in declino”. Furfaro sostiene la candidatura a primo cittadino di Ignazio Marino
di Graziano Rossi
@grazianorossi
Roma è una città sempre più difficile da gestire: trasporti, ambiente, salute, rifiuti, solo per citare alcune delle questioni. Quali sono le priorità che la Capitale dovrebbe avere a partire dal 28 maggio?
La priorità è cambiare il volto di una città non in semplice crisi, ma in declino. Roma ha enormi potenzialità, da tutti i punti di vista: culturale, professionale, artistico, lavorativo. Ma sprofonda ogni giorno di più nell’oblio: la Capitale sta diventando rancorosa e non a caso. La politica, chi governa una città, ha il compito di fornire a ogni singola persona l’opportunità di trovare la propria strada, a prescindere dalla condizione economica di provenienza. Si è determinato l’esatto contrario. Questo, associato alla sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, porta alla guerra di sopravvivenza, a vedere come unica speranza il “salvarsi da soli” a danno di chi ti sta accanto.
Non c’è un’emergenza specifica. Roma è l’emergenza. In questi 5 anni la giunta Alemanno non ha avuto nessuna cura dei suoi cittadini. L’unica preoccupazione è stata quella di conservare il potere e distribuire prebende agli “amici degli amici”. Nessuna strategia per Roma, nessuna innovazione, nessuna visione. Solo propaganda e annunci rivelatesi dei fallimenti completi.
Chi ambisce a governare Roma ha questo compito: accompagnare la sfida della modernità, dell’innovazione a 360 gradi (dalla mobilità al ciclo dei rifiuti, dal lavoro alla salute) non solo per avvicinarla alle grandi capitali europee. Ma per far percepire ai cittadini romani, a ogni singolo cittadino, di far parte di una rinascita collettiva in cui nessuno viene lasciato indietro ma, al contrario, diventa fondamentale e parte attiva per la costruzione di una nuova idea di città.
Siamo a pochi giorni dalle elezioni per il nuovo Sindaco. Perché dovrebbe essere Ignazio Marino il primo cittadino di Roma?
Perché è una persona onesta, competente, che non ha paura di affrontare i problemi attuali senza ipocrisie e senza condizionamenti. La politica sta crepando perché vittima di correnti, giochi di potere, retaggi. E’ diventata terribilmente incompetente e inconcludente. Ignazio Marino è fuori da tutto questo. È una persona estremamente preparata ma aperta alle innovazioni, limpida, puntuale, accessibile. Per questo ha vinto le primarie del centrosinistra: perché era il volto più sincero del cambiamento possibile.
La sua vittoria darebbe speranza alla costruzione di un nuovo modello, di una visione, di una macchina amministrativa trasparente e non più al servizio di clientele, ceti e corporazioni come accaduto in questi cinque anni. Sarebbe la vittoria di chi va oltre le logiche di partito e dei blocchi organizzati, a significare il bisogno, la necessità di portare aria nuova al servizio di una città diventata grigia, respingente, ma ancora con tanta voglia di rialzarsi nonostante la povertà dilagante, la mobilità insostenibile, le disuguaglianze crescenti.
Quando il centrosinistra mette in campo persone con un profilo politico aperto, curioso, onesto e trasparente, il centrosinistra torna vincente. Per questo Ignazio Marino può e deve vincere. Roma è diventata la capitale della precarietà. Ora, con Ignazio Marino, possiamo far diventare la città la capitale delle opportunità.
Roma si avvia ad essere ufficialmente identificata come Città metropolitana, anche per l’addio alle Province: come pensa sia possibile far “convivere” la realtà interna alla cintura del Grande Raccordo Anulare con le questioni dei comuni limitrofi alla Capitale?
Ogni comune ha le sue peculiarità, ma analizzando oggi quella che è diventata l’area è facile vedere il forte di grado di interdipendenza tra Roma e i centri urbani limitrofi. Per gestire nel modo migliore e più ordinato possibile un sistema così complesso è necessario un Ente di governo di area vasta in grado di svolgere attività di programmazione su poche, fondamentali materie quali il ciclo dei rifiuti, le infrastrutture e la mobilità, commercio, sviluppo urbanistico. Oggi, infatti, nonostante l’economia di Roma sia strettamente legata al suo territorio e ai comuni limitrofi, non c’è ancora un progetto di sviluppo e di riforma unitario. Per questo ben venga la Città metropolitana. Il compito di chi governa sarà di fare di questa interdipendenza un’opportunità positiva per far crescere il benessere, dalla salute agli spostamenti, dalla qualità del lavoro ai servizi, e non certo aumentare le diseguaglianze, già forti e presenti, tra i cittadini che vivono all’interno del raccordo e chi vive fuori.
La precarietà nel mondo del lavoro, non solo tra i giovani, ma anche tra gli over 40, è sempre più una piaga: secondo lei il mondo politico all’interno del Parlamento non sta commettendo per l’ennesima volta un errore grossolano a non inserire una volta per tutte il lavoro stesso come priorità assoluta?
Nel modo in cui la politica, anche gran parte del centrosinistra, tratta la questione del “lavoro” c’è il fallimento di un’intera classe dirigente. Negli ultimi trent’anni, in Italia, così come in Europa, dinanzi alla globalizzazione e alla crisi di un tessuto industriale e imprenditoriale che iniziava a perdere terreno su innovazione, ricerca e formazione, la classe politica ha scelto la flessibilità come aspetto strategico su cui rendere competitivo il sistema d’impresa. Quella flessibilità è diventata precarietà esistenziale per una generazione sfruttata fino allo svilimento, che segna la crisi di un sistema in cui le imprese, in mancanza di investimenti strategici e in presenza di un sistema corrotto, si trovano costrette (anche per loro colpe) a competere sul costo del lavoro, “scaricandolo” con contratti al ribasso su individui ricattabili e affamati di lavoro. La precarietà si è poi estesa anche ai cosiddetti “garantiti”.
Dinanzi a questo quadro, la politica dovrebbe proporre una politica industriale che ponga le sue basi sulla riconversione ecologica, trasformando il nostro architrave produttivo in una nuova sfida che porterebbe portare nuovo lavoro, nuova economia: vedere, in sintesi, la crisi come un’opportunità per determinare un nuovo modello, di sviluppo e di welfare. Per questo si dovrebbe parlare con forza, e subito, di reddito minimo garantito. Perché il reddito è una grande opportunità per l’Italia: è lo strumento per innovare il welfare e rispondere alle esigenze di un Paese in difficoltà, dei suoi giovani precari così come di chi perde il lavoro e giovane non è più. È un dispositivo necessario di fronte alla dilagante povertà e crisi che pervade il paese, ma non è “semplicemente” uno strumento assistenziale. Il reddito può e deve essere il perno per la costruzione di un nuovo modello di welfare universale, che prenda spunto dalle migliori esperienze europee e che guardi ai mutamenti del mondo del lavoro. Non per sacrificare persone e diritti in nome di una competitività che porta solo licenziamenti e fallimenti delle imprese. Ma semmai per dare loro la possibilità di non cadere nella povertà o di prendere scelte non vincolate dalla condizione economica della famiglia di provenienza.
L’Italia ha “la quota più alta d’Europa” di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano né studiano. Si tratta dei cosiddetti Neet, arrivati a 2 milioni 250 mila nel 2012, pari al 23,9%, circa uno su quattro. Non solo, 6,8 milioni di cittadini non hanno da parte nemmeno 800 euro per le emergenze. La disoccupazione, giovanile e non, sta raggiungendo record impensabili.
Una tragedia sociale. Ma anziché pensare a questo, il governo e la maggioranza dibattono di IMU, di presidenze della giunta delle autorizzazioni da dare alla finta opposizione della Lega per non far irritare Berlusconi, di come fare finta di cambiare una legge elettorale non democratica che non cambieranno, dell’ineleggibilità di un uomo ineleggibile da vent’anni.
Servono nuove politiche e nuovi strumenti. E la politica che non corre il rischio di intraprendere nuove strade è l’emblema di una classe dirigente che da vent’anni galleggia, senza idee e solo per autoconservarsi.