Il “Secondo tempo” di Pierfrancesco Li Donni
Il ricordo delle stragi di Capaci e via d’Amelio, tra rassegnazione e speranza, nel docufilm del regista palermitano Pierfrancesco Li Donni
di Francesca Britti
“Bisogna sconfiggere ogni mafioso che c’è in noi“. La voce della nuova generazione, rappresentata da un ragazzo qualunque, conosce le nuove regole della mafia. Il mafioso di una volta, quello con la coppola per intenderci, non esiste più. O meglio esiste ma è non più lui la figura più potente del sistema mafioso da combattere. La strage di Capaci del 23 maggio 1992 e quella di via d’Amelio del 19 luglio 1992 ne sono la testimonianza più emblematica. Il potere mafioso nello Stato, che intreccia rapporti con i mafiosi locali (siciliani e non).
La nuova generazione che si scontra però con la vecchia che, attraverso le parole di un uomo sulla sessantina d’anni, afferma, con voce rassegnata “la mafia non è poi così cambiata dopo quelle stragi“. Nonostante l’orda di gente di qualunque estrazione sociale e di qualunque generazione riversata per le strade di Palermo in occasione della morte dei due magistrati, la Sicilia (e l’Italia) non è cambiata. Perchè? Chi vuole rimanere in questo stato? È la domanda che riecheggia da persona a persona. È quello che si è chiesto soprattutto Rita Borsellino. “Non sono pessimista penso sia una fase di transizione che però forse dura da troppo tempo“. 21 anni di silenzio. Un po’ troppi per considerarli “fase di transizione”. Forse.
La speranza è l’ultima a morire, dice il detto. Ma nell’isola bella e dannata la vita, dopo quel 23 maggio ’92, si è fermata. E la speranza non si sa più cosa sia. La Sicilia luminosa nella sua forma ma cupa nella sua anima rappresenta l’Italia intera. E mai come in questa fase politico-culturale lo stallo dei cittadini indica una rassegnazione che sembra non sia possibile scuoterla in nessun modo. Le commemorazioni vedono sempre meno partecipanti, a parte i soliti combattivi delle associazioni, come il Comitato dei lenzuoli. La morte di Falcone prima, e Borsellino poi, sconvolsero tutti e Palermo decise di esprimere la sua rabbia e il suo dolore attraverso il gesto semplice ed efficace di appendere lenzuoli con scritte contro la mafia.
Tutte queste testimonianze sono state raccolte dal regista Pierfrancesco Li Donni e diventate un documentario in cui si ricordano le stragi di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della sua scorta e di via d’Amelio in cui, invece, furono Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta a perdere la vita.
Prodotta da Emma Film, Own Air e Vega’s e in rassegna al Courmayer Noir in Festival 2012, la pellicola oscilla fra le immagini di repertorio di ieri, grazie alla ricostruzione di Fabio Lanfranca, film-maker amatoriale che riprese le manifestazioni spontanee dei cittadini palermitani e la Palermo di oggi, “una città che poteva essere e non è stata“.
A fare da collante alle interviste (Franco Lannino e Michele Naccari, fotografi, Giuseppe Di Lello, magistrato, Nino Lo Bello, Palermo AnnoUno, Peppe Spataro, avvocato, Beatrice Monroy, scrittrice, Marcelle Padovani, giornalista, Pietro Giordano, Marta Cimino, del Comitato dei lenzuoli) ed immagini d’archivio il cantastorie palermitano Salvo Piparo, che mette in scena in dialetto siciliano, il passaggio dal passato al presente. Passaggio che non c’è mai stato, tanto che il dialetto siciliano viene definito nel docufilm “la lingua del passato che non parla mai al futuro“.
Incatenati al passato, un futuro che sappiamo esiste ma di cui non si sappiamo delineare neanche i contorni. La vita è ora, la lotta dovrebbe essere ora ed invece la rassegnazione e la remissività sono il nostro pane quotidiano. Si respira questo a Palermo, in Sicilia, in Italia.
“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola” diceva Falcone. Dalle lezioni lasciateci da Falcone e Borsellino (ed altri) non abbiamo imparato nulla. Forse abbiamo solo capito che la mafia siamo noi. E che ci piace esserlo.