Il cambio di paradigma
La Camera approva il ddl che abolisce il finanziamento pubblico e i sindacati trovano un “accordo storico”, ma disoccupazione e Pil preoccupano
di Samuele Sassu
Tutto converge verso la via della ricostruzione, o almeno questo è il messaggio che l’Italia intende dare prima di tutto a sè stessa e, di rimando, all’Europa. La maggioranza di larghe intese dà il via al processo costituente che nei prossimi diciotto mesi dovrà ridefinire l’assetto istituzionale del Paese. Lo sciagurato sistema di finanziamento pubblico dei partiti cambierà radicalmente a partire dal 2016. I sindacati e Confindustria hanno stabilito regole comuni per certificare l’applicazione dei contratti firmati. A frenare l’entusiasmo, però, intervengono i dati drammatici sulla disoccupazione e quel Pil che pare non volere crescere mai.
L’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti è stato uno dei cavalli di battaglia in campagna elettorale, praticamente per ciascun partito. In base al ddl approvato ieri alla Camera, le risorse saranno ridotte gradualmente dal 60 al 40% nei prossimi tre anni, per poi venire cancellate del tutto. A giugno 2015, tutti i contribuenti potranno scegliere di destinare il 2 per mille al partito che più li aggrada. Il 2016, infatti, sarà l’anno in cui questo nuovo sistema di contribuzione volontaria entrerà effettivamente in funzione. Naturalmente, resta in piedi anche la via della contribuzione da parte dei privati effettuata attraverso detrazioni.
Gaetano Quagliariello, ministro delle Riforme Istituzionali, sottolinea “l’insopportabile ipocrisia” del finanziamento pubblico finora conosciuto e ribadisce che con il nuovo sistema cambiano le condizioni per i partiti. Dovranno infatti essere dotati di statuto in grado di garantire i criteri di democraticità, mentre i loro bilanci dovranno essere certificati, per rispettare il principio della trasparenza. Tra le innovazioni, un altro aspetto fondamentale: lo Stato erogherà servizi come gli spazi televisivi autogestiti, location per i congressi, esenzioni per le bollette.
Tengono le larghe intese – almeno durante il primo step a Montecitorio – mentre Cgil, Cisl, Uil e Confindustria trovano un accordo “storico” sulle regole comuni che dovranno misurare il peso di ciascun sindacato nel percorso che porterà alla firma dei contratti. Terranno conto una serie di parametri, tra cui le deleghe sindacali comunicate e certificate dall’Inps (ossia le trattenute su mandato del lavoratore operate dal datore di lavoro) e i voti ottenuti da ciascuna organizzazione alle Rappresentanze Sindacali Unitarie. Al tavolo delle trattative potranno accedere soltanto coloro che rappresenteranno almeno il 5% dei lavoratori. Susanna Camusso, leader Cgil, parla di un accordo che mette fine a una lunga stagione di divisioni.
Sembrerebbe la sintesi di una giornata epocale, tutti d’accordo pronti a procedere verso la ricostruzione dell’Italia. Enrico Letta, presidente del Consiglio, etichetta il suo governo come “irripetibile ed eccezionale”. Eppure, quando si esce dall’Aula, o da una sala stampa stracolma di telecamere e microfoni, gli annunci e i grandi slogan lasciano spazio ai dati e, soprattutto alla vita reale. Quella che mette in mostra la disoccupazione giovanile ormai prossima al 40%, gli oltre trecentomila posti di lavoro andati distrutti negli ultimi anni e la crescita di un Paese che non può prescindere dalle prime due.
Proprio la Cgil, che esulta per l’accordo storico raggiunto, pubblica uno studio proiettato sui dati rilevati dall’Istat, secondo il quale “non sarà mai recuperato il livello dei salari reali a causa dell’inflazione”. Se la ripresa annunciata per il 2014 avrà realmente effetto, l’Italia dovrà aspettare tredici anni per tornare a un Pil come quello del 2007. Per non parlare poi del livello occupazionale registrato nel periodo precedente la crisi: in tal caso, dovremo aspettare ben 63 anni, sempre secondo questo studio. Naturalmente, la simulazione tiene conto delle attuali tendenze, senza prevedere modifiche strutturali di politica economica. Un invito piuttosto “scientifico” a mettere in piedi un “cambio di paradigma che parta dal lavoro per produrre crescita”.
Sembrerebbe tutto così banale e scontato. Parole che l’italiano medio è abituato a sentire o leggere quotidianamente, un po’ ovunque, come se ogni istituzione, ogni capo di governo o ciascun partito non vedessero l’ora di cambiare prospettiva e agire di conseguenza. Eppure, chi ci dice che il ddl del governo approvato alla Camera ieri non subisca una forte battuta d’arresto al Senato fra qualche giorno? L’abolizione del finanziamento pubblico potrebbe saltare in pochi istanti, o subire modifiche macroscopiche, così come questa precaria tenuta delle larghe intese. I sindacati come i partiti, così uniti oggi, hanno sempre dimostrato che la coesione interna è pura utopia. Il vero cambiamento, per questo Paese, troverà attuazione soltanto quando si passerà dalla sindrome del Gattopardo alla cura del “vedere per credere”.
(fonte immagine: http://www.ilmondo.it/)