“La Grande Bellezza” della Roma raccontata da Paolo Sorrentino
Accolto da nove minuti di applausi al Festival del Cinema di Cannes, “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino è un film sulla decadenza di un genere umano allo sbando sullo sfondo di una Roma da cartolina
di Federico Larosa
“A far l’amore comincia tu” cantava nel 1976 Raffaella Carrà. E la canta ancora, quasi quarant’anni dopo, nella versione 2011 remixata da Bob Sinclar che fa da sottofondo all’iniziale (e inutilmente lunghissima) sequenza della festa di compleanno in discoteca che apre “La grande bellezza”di Paolo Sorrentino. I personaggi dell’umanità grottesca e decadente che Sorrentino tratteggia e delinea implacabile e senza alcuna pietà, insieme a Contarello, sono già tutti presenti nei primi 5 minuti di pellicola. La soubrette devastata dal botulino e dagli interventi di chirurgia estetica, la scrittrice di partito che vive nell’illusione cosciente di essere non solo una professionista ma anche un’ottima madre e una moglie devota, un imprenditore erotomane e puttaniere che produce giocattoli, un drammaturgo di provincia che non ha mai esordito, un’editrice nana materna e saccente.
È questa la (a)varia(ta) società che gravita attorno al protagonista Jep Gambardella (Toni Servillo), giornalista di costume, protagonista delle notti romane che non si “accontenta di andare alle feste” ma che ha sempre “voluto il potere di farle fallire”, come lui stesso dichiara nel corso di una delle sue ciniche riflessioni. Gambardella trascina la sua esistenza tra allucinanti feste prive di allegria ma condite da strisce di cocaina e simposi simil-culturali sulle terrazze della Roma “bene” (che si affacciano inevitabilmente sugli storici monumenti dell’Urbe) che perpetuano un simulacro dalle forme orribili e privo di alcuna sostanza in un processo colpevole di auto-assolvimento consapevole da parte dei suoi macabri protagonisti. Questo finché la scoperta della morte di un amore di gioventù e l’incontro con una spogliarellista quarantenne figlia di un suo vecchio amico gestore di night(-club) cominciano ad incrinare una corazza fino a quel momento coriacea ed impenetrabile.
Nel film di Sorrentino convivono momenti ed atmosfere differenti che difficilmente riescono ad armonizzarsi: accanto ad alcune scene e suggestioni visive affascinanti (l’episodio delle chiavi, il rito del Botox officiato da un improbabile chirurgo, la scomparsa della giraffa) si alternano purtroppo momenti irrisolti (i flashback sull’amore di gioventù) o semplicemente “brutti” e incomprensibili come tutta la parte finale dedicata all’anziana suora che ha dedicato tutta la sua vita alla povertà pur non sapendo(ne) parlare.
In definitiva, “La grande bellezza” si afferma come un film complesso e a tratti affascinante che, se accostato scevri dalle aspettative che un film di Sorrentino porta inevitabilmente con sé (ma poi perchè?), può, e deve, essere apprezzato sebbene nelle sue imperfezioni che tuttavia lo rendono un corpo vivo e vibrante. Qualcosa su cui continuare a riflettere…