Parola d’ordine: reinventarsi (ma con moderazione)
In tempi foschi come questi, in molti decidono di rinascere dalle proprie ceneri per affrontare il buio di un tunnel infinito. Anche le rassegne d’arte seguono questa tendenza. Ma basterà?
di Alessia Signorelli @lasignorelli
La crisi continua a masticarci con la bocca maleducatamente aperta ma, a quanto pare, la parola d’ordine per non farsi inghiottire tutti interi è “reinventarsi”. Ricalibrare i costi, le tipologie, l’offerta e il target, cercando di contenere le spese e di raggiungere quelle fasce di pubblico che, solitamente, non hanno alcun rapporto con l’arte – soprattutto contemporanea. Ma non solo: ci si rivolge prevalentemente alle nuove leve, dagli artisti stessi ai curatori, il tutto inserito nel desiderio di istituire delle “buone pratiche” che riescano a traghettare il mondo più squisitamente “commerciale” (inteso non solo come mero piazzamento dell’opera in termini economici, ma anche come la via per far conoscere un artista al pubblico e ai galleristi, sempre e comunque a caccia di quel guizzo, di quel “diverso”, più che nuovo, che si dimostri davvero vincente) che gira intorno alla creatività.
Che è poi anche un modo per tenerseli, i cervelli che continuano a fuggire verso orizzonti non tanto meno in crisi, quanto più flessibili, più aperti. Ci si dà una nuova dimensione e ci si ibrida per sopravvivere e sopravviversi.
Ad esempio, partirà a novembre e durerà fino a gennaio 2014 la prima edizione di One Torino, un evento frazionato in cinque mostre, riunite in un unico catalogo, e disseminate a Palazzo Cavour, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, GAM, Castello di Rivoli e Fondazione Merz, ognuna con il proprio personalissimo curatore. Cinque mostre tematiche, più di 50 artisti provenienti da tutto il mondo e un’esigenza, questa di One Torino, di “rivedere” quello che è stata, fino ad ora, Artissima. Si tagliano sì i costi (650mila euro di fondi stanziati, circa un terzo del bilancio di Artissima, reperiti sia da fondi di natura pubblica che grazie all’intervento di fondazioni bancarie) e si allarga il respiro; si spende meno, ci si prefigge di dare ancora più qualità – soprattutto per quanto concerne l’Italia e il suo ruolo di catalizzatore mondiale di arte e cultura; un ruolo che deve essere sicuramente ripensato e soprattutto svecchiato nella mentalità.
A settembre, al rientro delle non vacanze degli italiani, se ne saprà di più di questa “fenice” dell’arte.
Eppure, un problema c’è, resta ed è un problema generale, di natura forse pigramente speculativa, probabilmente un’oziosa questione di lana caprina che, però, tuttavia, non può fare a meno di presentarsi. E’ il discorso relativo alla qualità della nuova arte, al suo valore più intrinseco e più vero.
L’arte dovrebbe (e, oramai, il condizionale è d’obbligo) risultare pericolosa per la tranquillità di chi le si avvicina, ma questa sua pericolosità, questo suo potere di dare dei gran ceffoni in faccia, sembra si sia perso nell’abietta massificazione post anni Novanta che ha investito tutta la società – e il fenomeno “hipster” ne è un po’ l’epitome, più che il sintomo.
Quando esplose il punk dell’Inghilterra di fine anni Settanta, quella nazione era in crisi, crisi nera, economica e valoriale. Una crisi così massiccia e pervasiva come quella che viviamo da anni, avrebbe dovuto produrre, a parere di chi scrive, un qualcosa di molto simile all’ Azionismo Viennese di Hermann Nitsch, al violento e appassionato coito di tela e colori di Francis Bacon, alle azioni sul palco delle prime, anzi, primordiali incarnazioni dei Throbbing Gristle. Invece, si gioca con le manipolazioni digitali, ci si perde in blande elucubrazioni fini a se stesse in un’adolescenza diluita che, però, sembra avere una gran presa e sembra vendere non solo arte ma anche stili di vita, pensieri, modi di rapportarsi a tutto quello che ci circonda.
Si galleggia, insomma, tra uno scatto condiviso, un’insipida rivisitazione sonora o lo scongelamento (per carità, apprezzatissimo e commovente) delle vecchie glorie del passato che, per tanti, non sono che un riferimento vuoto, un “namedropping” conveniente che fa parte del costume di scena.
La crisi dell’arte, della cultura, del “nuovo” non è solamente economica. Sì, bisogna reinventarsi e ripartire, ma forse sarebbe il caso di attaccare dai contenuti. Poi, dopo, possiamo anche prendere in mano la calcolatrice.