Game Over: la situazione del lavoro minorile in Italia
L’indagine condotta da Save The Children e Associazione Bruno Trentin mostra uno spaccato del lavoro minorile in tutta la penisola
di Guglielmo Sano
L’indagine condotta da Save The Children, insieme all’Associazione Bruno Trentin, presentata in occasione della “Giornata mondiale contro il lavoro minorile” del 12 giugno, si basa ancora su dati preliminari, che confluiranno successivamente in una pubblicazione definitiva.
Nonostante ciò, attraverso il rapporto Game Over, è possibile già adesso tracciare un’immagine abbastanza nitida di un fenomeno, invece, troppo spesso opaco, sottovalutato o, addirittura, del tutto ignorato, nel nostro Paese: il lavoro minorile.
Dal dossier emerge come il lavoro minorile, lontano da essere un fenomeno in via di estinzione o di entità trascurabile, sia tutt’altro che scomparso nei Paesi economicamente sviluppati, Italia su tutti, e che abbia assunto delle nuove forme ancora da analizzare: “La questione, allora, non è ‘se e quanto il lavoro minorile sia buono o cattivo’ – si legge nel documento –, piuttosto riguarda in che modo decifrare di questo fenomeno le dimensioni che ne fanno un’esperienza difficilmente reversibile per un individuo e fortemente condizionata da una specifica eredità sociale”.
Le esperienze di lavoro minorile rappresentano dei “tasselli di vita” di alcuni individui “predestinati” a causa delle condizioni familiari e territoriali, “siano esse legate a condizioni di arretratezza economica e sociale e quindi a forme di povertà, oppure regolate da sistemi valoriali non re-interpretati alla luce dei rapidi cambiamenti in atto nelle società avanzate e dei requisiti complessi richiesti al loro interno per evitare marginalizzazione ed esclusione sociale”.
I minori di 16 anni che lavorano in Italia sono circa 260.000, il 5,2% della popolazione in età: “Al crescere dell’età aumenta la quota di chi fa un’esperienza di lavoro, così come emerso da precedenti indagini sul tema: l’incidenza è minima prima degli 11 anni (0,3%), è prossima al 3% tra gli 11-13enni e ha un picco nella classe 14-15 anni (il 18,4%)”.
È facile trovare un collegamento tra l’esperienza lavorativa e l’abbandono precoce dei percorsi di formazione scolastica e professionale: “Nel nostro Paese (dati al 2011), il 18% dei giovani tra i 18 ed i 24 anni hanno conseguito al massimo il titolo di scuola media e non hanno concluso un corso di formazione professionale riconosciuto dalla regione di durata superiore ai 2 anni, né frequentano corsi scolastici o svolgono attività formative (di contro ad una media europea pari al 15% e quasi il doppio rispetto al benchmark stabilito dall’Unione Europea pari al 10%). Questo tasso di abbandono degli studi post obbligo e di mancata acquisizione di un titolo di studio secondario fa pendant con la diffusione del lavoro minorile in particolar modo nelle età di passaggio dalla scuola media a quella superiore”.
Il fenomeno del lavoro minorile non è attentamente monitorato, quindi si presta a facili semplificazioni. Viene costantemente analizzato utilizzando categorie che appartengono al mondo lavorativo degli adulti. Troppo spesso si concede un eccessivo spazio a stereotipi che lo sovrappongono direttamente allo sfruttamento, visione questa che non permette di prendere in considerazione motivazioni e problematiche che determinano scelte di vita, non sempre obbligate.
Bisogna considerare il fenomeno nella sua complessità, evidenziando la fitta trama di relazioni che collegano il problema con l’istruzione, la salute, il mercato del lavoro, la sicurezza sociale, la crescita economica, la distribuzione del reddito e quindi la povertà economica e culturale dei territori e delle famiglie di appartenenza.
La crisi dell’economia familiare è al centro dei fattori messi in mostra dall’indagine. Di fronte a una situazione lavorativa difficile vissuta dai genitori, che non permette ai figli di soddisfare alcune necessità tantomeno di studiare, invece di “stare per strada” una scelta quasi obbligata diventa quella di “andare a lavorare”: “Ci troviamo in un periodo economico davvero difficile: le famiglie sono in seria difficoltà. Padri senza lavoro, madri che si arrangiano come possono. Non ci sono i soldi per permettere ai figli di studiare, figuriamoci per fare altro. Così alla fine si incoraggia il figlio a trovare un lavoretto, che per l’economia familiare significa tanto!.[operatore Servizi Sociali, Roma].”.
Ma non si creda che il giovane, una volta guadagnati, “porti, per forza, i soldi a casa”. Il suo stipendio, guadagnato spesso in evidenti condizioni di sfruttamento che, di solito, appaiono al giovane lavoratore del tutto normali, viene usato per permettersi quelle piccole cose che l’economia familiare non gli permetterebbe di concedersi: “Non dobbiamo pensare che se un ragazzo o una ragazza lavorano allora è perché portano i soldi a casa. Vanno anche a lavorare per poi tenersi i soldi: se non hanno i soldi per andare a comprare la pizza, per avere le scarpe che vogliono o per fare uscire la fidanzatina, se non hanno i soldi perché la famiglia non ce l’ha, beh allora è normale che si trovano da lavorare. [educatore Terzo Settore, Napoli]”.
Il rapporto non manca però di evidenziare, tra le molteplici facce del fenomeno, anche quelle più pericolose, socialmente dannose se non addirittura illegali: “È interessante mettere in evidenza che la scelta di un adolescente di partecipare alle attività di una organizzazione criminale può derivare proprio da una precedente esperienza di lavoro precoce. Non solo quindi l’appartenenza familiare a circuiti criminali, ma anche l’esperienza di sfruttamento sul lavoro può essere la spinta per scegliere di intraprendere una attività illecita, che viene così percepita non troppo distante nelle modalità di relazione tra chi comanda e chi esegue un lavoro”.
In questo quadro, come già sopra evidenziato, la scuola ha un ruolo determinante in negativo: “In molti contesti la scuola non è in grado di garantire adeguati percorsi di socializzazione e soprattutto ha forti difficoltà nell’alimentare il desiderio di conoscenza: l’offerta formativa è distante dalla necessità di sviluppare competenze tecnico-pratiche, di creare i profili professionali richiesti dal mercato del lavoro e la didattica proposta è desueta e poco flessibile. Ne consegue un disinteresse del minore e quindi un suo allontanamento dalla formazione, anche negli anni dell’obbligo scolastico. In questi casi, le famiglie considerano prioritario togliere i figli dalle strade, evitare che passino le loro giornate soli e per questo non ostacolano l’inserimento in attività lavorative precoci e persino rischiose per la salute e la crescita dei figli”.
Territori abbandonati e mancanti di servizi pubblici ricreativi, famiglie impoverite sia economicamente che culturalmente, formazione scolastica latitante e, dove “presente”, vicina ad essere inutile o addirittura controproducente nella lotta alla marginalizzazione e alla devianza. In mezzo ci sono loro: quel 5% di minorenni che dicono “questo o niente”.
Cambia il dialetto e l’accento con cui lo dicono ma il messaggio è lo stesso: il futuro non è lontano per questi ragazzi, maschi, femmine e stranieri tutti colpiti praticamente allo stesso modo dallo sfruttamento e dalla mancanza di punti di riferimento, il futuro in sostanza per loro non esiste.
Come emerge dal rapporto, i percorsi che portano a un ingresso precoce nel mondo del lavoro nella maggior parte dei casi non sono reversibili, una volta entrati se ne esce difficilmente e insieme al futuro se ne va in fretta anche la speranza.