Quel “Fedele alla linea” di Germano Maccioni
Una figura in-fedele a tutto e tutti, tranne che ai suoi cavalli e alle sue montagne bolognesi. La ri-scoperta della fede religiosa e l’assenza di amore materno al centro dei racconti liberatori al regista-confidente Germano Maccioni
di Francesca Britti
“La malattia è la parte più vitale della mia vita“. Sembra assurdo ma per qualcuno è stato così. Quel “qualcuno” non è un personaggio qualsiasi ma è Giovanni Lindo Ferretti, il simbolo del punk in Italia. Una figura contraddittoria e controcorrente capace di accendere opinioni contrastanti. I suoi ultimi anni artistici e umani li racconta il regista Germano Maccioni nel documentario “Fedele alla linea” in cui di fedele non c’è proprio niente, ha sostenuto sorridendo il regista stesso. Di fedeltà c’è quella, invece, per i tradimenti.
Non è stato fedele il regista alla richiesta di Ferretti che ha voluto questo film, ma in primis l’artista, prima cantante, ora poeta non si può di certo dire che abbia mantenuto una linea fedele nella sua vita. I suoi tormenti interiori, derivati da una educazione prettamente cattolica, hanno generato in lui un rifiuto verso l’umanità e,in un certo senso, verso la vita, che è stata riversata nella musica quando raggiunse il successo come cantante punk con i CCCP. L’ultimo spettacolo, invece, è frutto di una ritrovata serenità fra i monti della sua infanzia, intitolato Saga Il Canto dei Canti, opera epica equestre che narra il legame millenario fra uomini, cavalli e montagne.
Il film è stato sold out al pari de La rabbia di Bertolucci, ha dichiarato il direttore artistico del cinema Aquila Massimo Vattani. Feedback dal pubblico che fanno capire come ancora oggi la figura “oscura” di Ferretti stuzzichi l’interesse dei suoi ammiratori e non. In particolare, nei dialoghi fra l’artista e il regista si evince un bisogno di tirar fuori il dolore costante di tutta una vita. Dal rapporto con la madre, che sul punto di morte gli chiede scusa per non averlo capito e amato, al dolore fisico, la scoperta di un tumore al polmone che ne ha condizionato la rinascita. Il viaggio in Mongolia con Massimo Zamboni(con cui creò negli anni ’80 i CCCP) e la ri-scoperta della fede religiosa (ed in particolare della figura di papa Ratzinger) che l’hanno riportano ad apprezzare la vita semplice e delle origini e ad accettare serenamente la possibilità della morte.
Ritornato, infatti, a Cerreto Alpi riprende il contatto con la montagna e con i cavalli che diventano protagonisti della sua ultima opera. Il regista Maccioni ha seguito alcune tappe, risaltando il passaggio fra il vecchio e nuovo Ferretti. Anche se una costante sembra rimanere. La tristezza dei suoi occhi. O più precisamente la perdizione. È chiaro che gli anni rivoluzionari da un punto di vista socio-culturale hanno influenzato l’artista ma lo è altrettanto che a scavare nel suo animo, apparentemente ribelle ma profondamente debole, siano stati la formazione educativa in famiglia e nel collegio. Troppa severità che sono sfociati in musica, la sua salvezza, prima punk ora popolare e salmodiante.
Maccioni con quest’opera ha voluto restituire al pubblico l’immagine di un uomo complesso il cui elaborato uso linguistico, prima con la musica ora con il teatro, ha radici in Pasolini, così come il richiamo alla forza del passato, “nel rapporto con la tradizione, nel cristianesimo e nella ricerca incessante di una religiosità del vivere, o nella capacità di saper vedere in un rudere o in un antico ciottolato anni di potenza generatrice“.