Five Horizons: da Seattle a Roma, in mostra la band “given to fly”
La capitale omaggia i Pearl Jam. Immagini e parole dei fotografi che li hanno seguiti fin dagli inizi, dedicate ai fan di tutto il mondo. All’Auditorium Parco della Musica, fino al 30 luglio
di Valentina Palermi
Bruce Pavitt, fondatore dell’etichetta discografica Sub Pop e anima della fanzine Seattle Subterranean Pop, definì l’EP “Dry as a bone” dei Green River “grunge ultradissoluto che ha distrutto il senso morale di una generazione”. Con queste parole, viene alla luce il Seattle Sound. Dalle ceneri del gruppo, hanno vita i Mookie Blaylock, che mettono da parte l’ammirazione per il cestista dell’NBA per dare spazio al nome che inserisce questa band dello stato di Washington nel mito: Pearl Jam.
Una storia che nasce nell’autunno del ’90 e che è stata seguita e osservata da numerosi fotografi, che hanno avuto la fortuna di “catturare alcuni dei loro momenti più belli”, decidendo di restituire il loro punto di vista mettendoli a disposizione per “Five Horizons – The first international Pearl Jam photography exhibition”. O sarebbe meglio dire, “per la gioia dei loro fan sparsi in tutto il mondo”.
Sui mattoni dei muri del foyer dell’Auditorium Parco della Musica,grandi e piccoli ritratti. Negli ambienti, risuonano le note dei loro successi.
In bianco e nero, come lo scatto rubato nella sala prove, durante la registrazione di “Ten”. Come quello di Chris Cuffaro, in una stanza tra fili aggrovigliati e microfoni che lasciano la loro scia sul pavimento, in compagnia di vaschette di plastica con avanzi di cibo e forchette, fogli e parole fissate sui muri.
Spike Mafford racchiude in quattro tasselli colorati il primo show di Dave Abbruzzese dell’estate del ’91, al Mural Amphitheater. Racconta di un gioco col pubblico, una palla da basket che raggiunge la folla sulle note di “Porch” – sottotitolo “che quando ami qualcuno devi dirglielo” –, e torna indietro con un “Breath”.
E tra un’immagine da copertina di Matt Anker per il Late Show della BBC, durante il primo tour europeo dei Pearl Jam, partito da Londra nel febbraio 1992, la tensione catturata da Steve Gullick all’ultimo concerto di Dave Abbruzzese al Paramount Theater nell’aprile del ’94, e il ritratto di famiglia – sempre di Gullick – in occasione dei 20 anni dei Pearl Jam che sentono di vivere “una seconda giovinezza”, c’è il Melkweg di Mike Leach.
Lo scatto di Fernando Núñez, 33enne boliviano di Buenos Aires, fan dei Pearl Jam dal 1993, campeggia su una parete a lui dedicata. Questo insegnante di inglese è anche un fotografo, ma part-time. Grazie al voto di una giuria di professionisti, ha vinto il contest lanciato nei mesi scorsi da Five Horizons, che puntava a raccogliere, votare e selezionare le immagini catturate dai fan di tutto il mondo nel corso della loro carriera, fatta di lunghe tournée, e altre molto più brevi.
“Ed dà tutto quello che ha ai suoi fan”, mai a discapito della loro vita o del loro rispetto. Una morale che spinge i Pearl Jam a cancellare molte date del No Code Tour, boicottando gli show organizzati dal colosso Ticketmaster. Passano però allo Sports Palace di Barcellona, dove il soundcheck di 70 minuti regala al suo pubblico una delle registrazioni pirata preferite, con una prima versione di “Parting Ways” – che vedrà la luce solo 4 anni dopo. Un’etica, che dopo la morte di alcune persone nella ressa del Roskilde, nel 2000, li convince ad esibirsi di nuovo in un festival solo otto anni dopo a Bonaroo, dove “la gente sapeva stare insieme e sopravvivere, e va tutto molto bene”.
Ma soprattutto il Lollapalooza tour, dove Eddie a torso nudo si arrampica sempre più in alto, in modo precario, “un modo per dire ‘guardate come sento estrema questa situazione. Questo è quanto fottutamente intensamente sto prendendo questo momento’ ”e indossa elmetti, “come quelli dell’esercito”, per un “tipo di analogia […] come se avessi bisogno di un elmetto”.
E poi il free show Drop in The Park, a supporto del “Rock the Vote”, in occasione del quale 3.000 ragazzi si iscrivono alle liste elettorali direttamente al Warren G. Magnuson Park – sottotitolo “se non voti non puoi lamentarti del risultato!” Qui, Lance Mercer fotografa una goccia pronta a unirsi a quell’oceano di persone, una scheggia impazzita che fa finta di saltare da una parte, e poi si sposta dall’altra, con la folla davanti che ondeggia per prenderlo. Vedder si affida, come anche durante un brano,alla spalla di Jeff Ament . Loro fanno di tutto per rispettare la sua fiducia.
Voli d’angelo di un ragazzo dal volto sereno, talvolta spavaldo, tormentato o “buffo perfino a sé stesso”. Per alcuni aspetti, un’indole lontana anni luce dalla compostezza delle Photo Sessions delle Hawaii per Ukulele Songs. Il naturale prolungamento del suo braccio è lo strumento musicale, fermo e quieto come l’acqua sotto mentre i suoi capelli, ordinatamente selvaggi, si arrampicano sulla testa come gli alberi che infittiscono le colline al suo fianco.
Le immagini si susseguono, da Mercer – con un elementare Stage Plot, che raffigura tra due amplificatori quattro omini (Mike, Jeff, Eddie, Steve) con i loro strumenti, e un dietro le quinte canadese di Gossard con in testa un asciugamano bianco a mo’ di turbante – a Natkin. Paul è lì, nel luogo in cui Michael Jordan e i Chicago Bulls hanno vinto sei Campionati Mondiali, a cogliere le luci e le ombre di un ultimo evento al Chicago Stadium, dove Eddie (loro grande fan) vuole esibirsi prima che venga demolito. Cosa che succederà poco tempo dopo.
I Pearl Jam fanno lo stesso nel 2009, suonando “Pilate”, “Out of my Mind”, “Bugs” e la cover di “Whip it up” dei DEVO – travestiti come loro – al The Spectrum di Philadelphia, in una notte di Halloween “sorprendente e rara”. Al termine Danny Clinch ferma l’obiettivo su Mike McCready, avvolto dal lancio di coriandoli e palloncini. Tengono 4 concerti, suonano 133 canzoni, ne modificano 104. Clinch ci regala altri momenti dei Pearl Jam.
Più intimi, con Ed chino sui fogli sopra il palco del Key Arena, durante il primo dei due concerti del 2002. “È l’8 dicembre. Lennon è scomparso 22 anni prima. Eddie Wedder cerca di dirigere la gente a cantare ‘You’ve got to hide your love away’”, con indosso una maglia dei Ramones. E quando arriva il momento, “cambia le parole di ‘Do the evolution’: ‘Admire me, admire my clone, admire my son, admire The Ramones’ ”.
Più raccolti, di sei uomini, spalle all’obiettivo della macchina fotografica e volto al pubblico del Madison Square Garden, che sembrano voler abbracciare – anche se talvolta per vedere quelli più lontani si deve far affidamento ad un faro e una chitarra –, tra l’ipotesi di tornare a registrare con Matt Cameron, e dopo una “Crazy Mary” on fire.
Più italiani. Insieme ad Alessio Pizzicannella, li segue tra la Piazza del Duomo di Pistoia, Bologna e l’Arena di Verona, che Eddie percorre correndo come un matto tra le scalinate zuppe di pioggia, e sopra il palco. Fino a quando scivola, e “prega tutti di non farci male, la cosa più importante. Più della musica e del vino” come racconta Claudio Todesco di Jam Magazine, e saluta la folla accennando una cover di “My Sharona”, un omaggio “alla salute di Verona e alla sua splendida gente. Siete belli quando siete bagnati”.
Addossati alle transenne, tutti fanno capolino, mentre c’è chi vorrebbe perfino arrivare in alto, dove sono loro. Lì in aria, fin dove Eddie si arrampica. O su nel cielo, dove i Pearl Jam stanno per lanciarsi a bordo di un piccolo aereo, fermo sulla pista deserta e umida.
Hanno il permesso di decollare, a loro è concesso di volare. “Given to fly”.
Five Horizons
THE FIRST INTERNATIONAL PEARL JAM PHOTOGRAPHY EXHIBITION
13 giugno – 30 luglio 2013
Auditorium Parco della Musica
Roma, Viale Pietro de Coubertin, 30
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