Welfare e occupazione: un binomio possibile?
In tempo di crisi, aumentare i fondi per le politiche sociali significa creare nuovi posti di lavoro. È quanto sostiene un gruppo di ricercatori della “Sapienza – Università di Roma”, coordinati da Andrea Ciarini
di Lilia Biscaglia
La Rete “Cresce il Welfare, cresce l’Italia” – promossa da 40 tra le maggiori organizzazioni sociali che operano nel campo dell’economia sociale, del volontariato e del sindacato – ha presentato i primi dati di una ricerca su investimenti nel welfare e rilancio dell’occupazione.
UN SETTORE IN CRESCITA – Secondo i dati presentati lo scorso 5 luglio a Roma, tra il 2008 e il 2012, ovvero in piena crisi economica, si sono creati oltre 1 milione e 600mila nuovi posti di lavoro in Europa, all’interno dei servizi di welfare, cura e assistenza. La crescita dell’occupazione in questo settore sarebbe destinata a crescere anche grazie ad alcuni fenomeni che investono i Paesi europei, come l’invecchiamento della popolazione e il problema della non autosufficienza, ma anche il tema della conciliazione vita-lavoro e la cura e assistenza dell’infanzia.
LE DIFFERENZE IN EUROPA – Ma se in tutto il Vecchio Continente cresce la domanda di servizi di assistenza e cura alle persone, diverse sono le risposte e le strategie adottate in Europa per rispondere a questi bisogni. Accanto a Paesi come Svezia, Danimarca e Francia, che hanno puntato sulla crescita dell’occupazione formale, pubblica, privata o di terzo settore, esterna alla famiglia, in Paesi come Italia, Spagna e Portogallo, la risposta ai bisogni di assistenza alle persone arriva dall’attività di cura informale, svolta cioè direttamente dalle famiglie.
LA SITUAZIONE ITALIANA – Tra il 2008 e il 2012 le risorse per il sociale in Italia sono crollate del 90%. I tagli hanno avuto ricadute immediate sulle famiglie, sugli enti locali e sulle organizzazioni del terzo settore che – nonostante il crescente bisogno di servizi di cura e assistenza – ormai sono allo stremo. La scarsità di risorse ha alimentato fenomeni quali la mancanza di tutele e la compressione dei salari di chi lavora nei servizi alla persona. Inoltre, mancano meccanismi di incentivazione fiscale per il riconoscimento del lavoro di cura informale o l’emersione del lavoro nero nel settore delle cure domiciliari. Ad esempio, la ben nota “indennità di accompagnamento” per gli anziani non autosufficienti – che si basa sul trasferimento di risorse alle famiglie – di fatto non prevede alcun controllo sull’uso delle risorse. In questo modo, il poco lavoro che da solo si crea è spesso a bassi salari e a bassi livelli di protezione sociale. Senza poi parlare del divario interno crescente tra alcune regioni del Nord e del Centro-Nord – che sperimentano modelli di intervento innovativi – e le regioni meridionali, strette tra le carenze strutturali di servizi e una domanda sociale condizionata dall’aumento della disoccupazione.
LE PROPOSTE DELLA RETE “CRESCE IL WELFARE” – Secondo la Rete “Cresce il Welfare, cresce l’Italia”, serve investire sul welfare per il rilancio dell’occupazione, dell’economia, e per il sostegno alle famiglie italiane. Poche e incisive le proposte al Governo per l’adozione di alcune misure strategiche come la formulazione di un Piano nazionale per la non autosufficienza e l’aumento di incentivi fiscali e contributivi per favorire l’emersione del lavoro nero nel settore dei servizi alla persona. Tanto più che, in questo momento, la Commissione Europea ha concesso all’Italia una maggiore flessibilità di bilancio nel 2014 per investimenti produttivi e per rilanciare la crescita.
LE PAROLE DEL VECEMINISTRO – Il vice-ministro alle Politiche sociali, Maria Cecilia Guerra, che ha partecipato all’evento di presentazione della ricerca, ha sottolineato la necessità di “smantellare i luoghi comuni da cui derivano convinzioni e scelte politiche conseguentemente sbagliate. E il primo luogo comune è proprio che il welfare sia una spesa improduttiva”. Secondo Guerra per trasformare le politiche sociali da costo ad investimento, servono “politiche sociali non più intese come interventi riparatori, ma soprattutto come servizi e supporti inclusivi, affinché le persone siano davvero artefici e protagoniste della propria esistenza”.