“Il mio non è un nome, ma un aggettivo”
Il 29 Agosto del 1991 veniva assassinato Libero Grassi, l’imprenditore siciliano che si era ribellato ai suoi estorsori. 22 anni dopo Cosa Nostra è ancora forte, ma la Sicilia non è più la stessa
di Guglielmo Sano
Di Mafia se ne parla, tuttora, stilizzando i tratti della protagonista di un racconto che cade, per la maggior parte delle volte, all’interno di una dialettica che ricorda quel gioco di fanciullesca memoria chiamato “guardia e ladri”. In un racconto del genere, Libero Grassi non trova posto.
A dire il vero nessuna vittima della Mafia, di Cosa Nostra, meriterebbe di trovare la propria “vita” nel novero delle “leggende” che poggiano sul teorema: “dobbiamo combattere la Mafia”, piuttosto che in quello dei racconti di “impegno civile” basati sulla sicurezza che, invece, “bisogna sconfiggerla [la mafia]”. Forse fa comodo narrare di tanti “Don Chisciotte” intenti a scagliarsi contro fantomatici “mulini a vento”?
Libero Grassi non era un servitore dello Stato: per questo, a lungo, Palermo si è dimenticata di lui. Non tutta la Sicilia, tuttavia, se ne dimenticò. Tano Grasso, ad esempio, si ispirò direttamente a lui quando fondò la sua organizzazione antiracket a Capo d’Orlando. Discorso analogo per il resto del Paese: non pochi giornalisti, in effetti, gli diedero modo di parlare in vita; non pochi giornalisti lo ricordarono dopo l’attentato in cui la vita la perdette. Soltanto la sua Palermo ha scelto di dimenticarlo. Per parecchio tempo, a cominciare dalle istituzioni cittadine.
Non è facile raccontare la storia di Libero Grassi. Non è facile raccontare una storia semplice come la sua e in particolare non è facile raccontarla a Palermo. Falcone e Borsellino non erano solo uomini tutti di un pezzo ma erano anche magistrati straordinari: immenso intuito nella comprensione del fenomeno mafioso, abbinato a un’estrema conoscenza di ogni minima nervatura procedurale e legislativa. Raccontare la loro storia risulta più semplice perché Cosa Nostra avevano scelto di combatterla in nome dello Stato: ricordarli è esercizio doveroso ma anche conveniente, per le istituzioni. Per legittimare se stesse in quella trama epica o da romanzo giallo, quella trama che vede buoni contro cattivi nello scontro “eterno” per la “legalità”.
Certo, però, che se poi si viene a scoprire che ci sono dei “mandanti occulti” dietro “la strage di Capaci” – ma soprattutto dietro “Via D’Amelio” – che lo Stato impedisce ai suoi magistrati di investigare sullo Stato stesso per fugare i sospetti relativi alla “Trattativa” – ancora prima si scopre delle responsabilità della Dc, di Andreotti e di Ciancimino. Responsabilità non riguardanti solamente le vicende politiche isolane. Libero Grassi in questa lotta che posizione occupa?
La sua figura ha messo a lungo in crisi la “normalità” dell’antimafia istituzionale, il suo coraggio di “libero” cittadino, di “libero” imprenditore per molto tempo ha disturbato il ricordo delle vittime della lotta alla criminalità organizzata. Un ricordo che deve basarsi sulla cognizione che la guerra a Cosa Nostra non finirà mai. Cosa pensa di fare un cittadino che da solo si ribella a un potere così forte, che non scende a patti, consapevolmente, con chi potrebbe nuocere a lui e ai suoi cari, alle sue proprietà?
Per tanto tempo, a Palermo, Libero Grassi è stato “sbirro” – con buona pace dei palermitani – senza peraltro essere stato un servitore dello Stato – le istituzioni non ne hanno incoraggiato il ricordo, figuriamoci i cittadini delle fasce più basse della società palermitana. Per tanto tempo è stato “eroe” ma, forse, non abbastanza da “salotto buono”, per essere ricordato dalla Cittadinanza “bene” del Capoluogo. Perché investiva, perché aveva dei dipendenti? Non si sa.
A Palermo, poi, non si fanno affari senza un “uomo d’onore” che ti protegge. Forse la borghesia palermitana, quella che fa “impresa”, a lungo ha considerato Grassi un pericoloso precedente? Guadagnare e dare lavoro, senza “protezione” e senza “mettersi a posto”?
Questa è eresia: in un territorio dove non si “vuole” il libero mercato, dove non si “vuole” la concorrenza, perché basta prendere le briciole derivanti dai grandi accordi tra criminali e criminali, tra criminali e istituzioni. Così ognuno ha sempre il suo tornaconto, si paga il “pizzo” e nessuno rischia. Nessuno rischia di diventare ricco e “sfondare”, certo, ma nessuno rischia di perdere tutto e “andare in bancarotta” per altri versi – almeno così pensavano (o pensano?) gli industriali siciliani.
Nell’intervista realizzata nell’Aprile del 91 in una puntata di Samarcanda, programma televisivo condotto da di Michele Santoro, Libero Grassi si stupiva della reazione che la sua denuncia aveva suscitato. In particolare, il Presidente dell’Associazione industriali siciliana Luigi Russo gli aveva scritto: “se tutti facessero come lei, migliaia di piccole imprese della Regione verrebbero distrutte”. Con disarmante franchezza, con la logica dell’onestà Grassi rispose: “se tutti facessero come me sarebbero gli estortori a essere distrutti”.
Libero Grassi è stato uomo onesto che credeva nel “lavoro”: quel lavoro di cui nell’articolo 1 della Costituzione, quel lavoro su cui si fondano la società e la politica, quell “lavoro” che produce benessere rispettando la legge – proprio perché la rispetta, forse. Il lavoro che non sfrutta altro che il sudore della fronte, la forza delle mani e la sveltezza del ragionamento – così come la particolare “imprudenza” di chi fa affari. Un “lavoro”, insomma, che non vuole essere sfruttato.
Tre, le intuizioni che gli costarono care: 1) l’uso dei “mass media”, estremamente pericoloso per il business delle estorsioni basato su paura e silenzio, per denunciare le minacce subite e per acquisire maggiore visibilità; 2) le accuse (motivate) a una politica che sistematicamente poggiava su Cosa Nostra per acquisire il consenso, una politica che difendeva gli interessi di chi la sosteneva; 3) il rifiuto di piegarsi al ricatto dei suoi estorsori mettendo in discussione la loro possibilità di ottenere ingenti guadagni.
Ad oggi il giro delle estorsioni vale un miliardo di euro, in Sicilia sono più di 150.000 le aziende taglieggiate. La situazione da qualche anno è cambiata. Sono arrivate le scuse alla famiglia da parte di Confindustria che, adesso, nel proprio statuto contempla la possibilità di espulsione per gli imprenditori condannati per associazione mafiosa. Poi sono nate le associazioni antiracket AddioPizzo e LiberoFuturo.
Nell’occasione dell’ultimo anniversario della sua tragica scomparsa è stato presentato anche il progetto della banca dati nazionale sui processi antiracket, tanto per capire che Cosa Nostra non è solo un problema siciliano. E la memoria di Libero Grassi non appartiene solo a Palermo. Anche se forse, negli ultimi tempi, Palermo sta meritando di averlo avuto tra i suoi cittadini. Finalmente.