Il Museo della Mente potrebbe chiudere a causa dei tagli
Un’altra memoria collettiva italiana che rischia di andare perduta
di Giorgia Braico
Il Santa Maria della Pietà di Roma, dopo la dismissione da manicomio nel 1999 a seguito della riforma dell’assistenza psichiatrica con la legge n.180 del 1978 nota anche come anche “Legge Basaglia”, è oggi sede di diverse strutture, sanitarie, sociali e culturali, nate per dare a questo luogo nuova vita ed un nuovo significato, non per cancellarne la triste memoria ma, anzi, con l’ausilio di questa, creare informazione e prevenzione alla salute mentale, oltre a riscattarlo socialmente.
Uno dei progetti più importanti in questo senso è il Museo Laboratorio della Mente, istituito nel 2000 nel padiglione n.6 e trasformato in museo multimediale nel 2009. Progettata e gestita da UOS Centro Studi e Ricerche ASL RM E, realizzata con il collettivo artistico Studio Azzurro e diretta dal Professor Pompeo Martelli, la struttura è stata concepita con l’intento di ripercorrere la storia dell’Ospedale – nato nel 1548 come “Hospitale de’ poveri forestieri et pazzi dell’Alma Città di Roma” (allora situato in Piazza Colonna) e divenuto manicomio nel corso dell’800 – e comprenderne la natura e quella di chi l’ha “vissuto”, medici e pazienti, attraverso un percorso interattivo e multisensoriale.
Della durata di circa un’ora, il “viaggio” fa uso dell’esperienza diretta del visitatore, che è invitato ad interagire con l’ambiente che lo circonda, attraverso le varie sale, che percorre di volta in volta e scandite da nuclei tematici, in modo da immedesimarsi e collocarsi all’interno di quel mondo che appare lontano, ma che alla fine non lo è poi così tanto – come si è portati a credere. Anche l’abbattimento del concetto di alterità e diversità, infatti, è uno degli elementi chiave di questa iniziativa.
Si comincia con il senso della vista, che è il primo mezzo con cui si riconoscono e “giudicano” gli altri. Il visitatore è accolto e scrutato da foto di occhi e sguardi fissi, allucinati, disperati dei pazienti, rovesciando così i ruoli ed iniziando l’immedesimazione. Si continua con altri effetti piuttosto forti, come la visione di corpi che si lanciano sbattendo contro muri trasparenti, simbolo di barriere invisibili e violenze subite.
Si prosegue con il “sentire” (parlare, vedere, ascoltare): la percezione del visitatore viene confusa, ingannata, viene invitato a registrare la propria voce che poi risulta estranea con l’immagine di una bocca che parla di altre cose, sottolineando un senso di straniamento, oltre quello di “parlare da solo”; sente la propria voce confondersi e perdersi in mezzo a tante altre, così come la sua immagine allo specchio che viene frammentata, tutti simbolismi del senso comune di “malattia mentale”.
Poi viene scattata una fotografia, come si faceva ai pazienti quando varcavano la soglia del manicomio, e che successivamente viene riproposta su una lavagna in un’altra sala insieme a quelle degli internati, che, ingrandite, riportano un breve brano della loro storia. L’esperienza “del corpo” prosegue con la reinterpretazione di alcune posizioni tipiche del disagio psichico, il visitatore, infatti, è invitato a sedersi ad un tavolino con degli avvallamenti per i gomiti che lo portano inevitabilmente a ritrovarsi con la testa fra le mani, udendo voci da un emettitore sonoro.
Il percorso prosegue con le opere creative di due pazienti, Fernando Oreste Nannetti e Gianfranco Baieri, internato a 7 anni e deceduto subito dopo la chiusura dell’ospedale, per poi proseguire con la ricostruzione dei luoghi e delle attrezzature della reclusione: la Fagotteria (dove giacevano pacchi di carta con gli averi dei pazienti che entravano), la Camera di Contenzione (dove erano tenuti legati i pazienti considerati pericolosi o agitati), le macchine per l’elettroshock e la Farmacia con gli utensili ed i medicinali utilizzati. Infine la sezione “Storie” è dedicata ai racconti degli internati, dei medici, degli infermieri, selezionabili su di un tavolo interattivo.
Le ultime due stanze si chiudono con una sensazione di speranza, ossia la storia della paziente Lia Traverso e della sua “rivoluzione delle forchette”, intrapresa per introdurre questo utensile nell’uso comune del manicomio, dato che gli era consentito mangiare solamente con l’ausilio di un cucchiaio; testimonianze e documenti anche video riportano tutta la vicenda che ha condotto poi al superamento e alla chiusura del manicomio.
In realtà la visita termina nel padiglione n.26, alla Biblioteca Cencelli, in cui è stata allestita l’installazione Portatori di storie – da vicino nessuno è normale nel 2010/2011, sempre a cura di Studio Azzurro, gruppo artistico formatosi nell’ 82 a Milano (che ha da poco perduto uno dei suoi storici fondatori, Paolo Rosa) e che si occupa da sempre di videoarte e videoambienti interattivi, proprio come in questo caso.
Lo spettatore infatti si trova di fronte ad un enorme pannello su cui si vedono camminare circa 25 (il progetto originale era per 50, ma è ancora in allestimento) persone in scala reale tra dottori, operatori, pazienti e i loro familiari, che mediante un tocco sul touch screen possono passare in un’altra sala e raccontare la propria esperienza. Come per esempio quella del Dottor Sartori, che ha rinvenuto ed aperto delle vecchie lettere destinate a o inviate da gli internati che venivano spesso bloccate e quindi rimaste chiuse per tutto questo tempo.
Non è un caso che questo Museo sia stato aperto un anno dopo la chiusura del manicomio, dato che il processo di rivoluzione dei modelli terapeutici che ha portato alla dismissione nel 1999, ha riconosciuto, tra le altre cose, la singolarità di ogni malato anche sottraendolo al limite della malattia (vedi la volontà del museo di concentrarsi sulle singole storie e testimonianze), la visione dello stesso non come soggetto pericoloso ma come bisognoso di cure, e quindi più “vicino” al resto dei cittadini e soprattutto delle istituzioni che devono garantirgli assistenza. In questo modo, un luogo così autoreferenziale è restituito alla città come parte della sua storia, come in effetti è sempre stato, avverando quello che ormai è lo slogan di tutta l’iniziativa: “uscire dentro [la città], entrare fuori [nell’ospedale psichiatrico]”.
Proprio per questo suo costante e preciso impegno sociale, il museo, il più grande in Italia sulla salute mentale, con 30.000 visitatori l’anno – soprattutto scuole, università, istituti di ricerca, associazioni nazionali ed internazionali – ha vinto nel 2010 il premio ICOM Italia come “Museo dell’anno per l’innovazione l’attrattività nei rapporti con il pubblico”.
Tutto questo rischia però di andare perduto. Dall’1 luglio di quest’anno, con la riformulazione dei bilanci della ASL RM E sono venuti meno i fondi da dedicare al rinnovo dei contratti dei collaboratori, parte fondamentale del Santa Maria e della struttura museale, in quanto occupano la figura di guide, custodi di questo grande patrimonio, realizzatori di numerose attività culturali, addetti all’archivio storico della struttura, riordinato e inventariato fino al 1978 (solo la Biblioteca Scientifica Cencelli contiene circa 9.000 volumi con testi dal XVI al XVIII secolo).
Attualmente è in corso una petizione, a cui ha aderito anche il Direttore Generale della ASL RM E, rivolta al presidente della Regione Nicola Zingaretti chiedendo di “Sostenere il Servizio Educativo del Museo Laboratorio della Mente”, lanciata dal Coordinamento Regionale Gruppi Multifamiliari (Dipartimenti di Salute Mentale – Regione Lazio).
Bellissimo. Argomento scottante e interessantissimo. Brava!!!