L’eterno dilemma siriano
Accertato l’uso di armi chimiche, un’iniziativa militare ONU sarebbe legittima. Il Consiglio di Sicurezza, tuttavia, non la autorizzerà: oltre al veto di Russia e Cina, il parlamento britannico ha bocciato l’ipotesi. Obama chiederà il via libera al congresso USA
di Domenico Spampinato
Sulla scia entusiasta di quelle primavere destinate a cambiare le sorti del mondo arabo, il 15 marzo del 2011 la popolazione siriana si riuniva nelle piazze per chiedere al proprio sovrano l’abolizione di quello Stato di emergenza che per decenni aveva decretato la sospensione di ogni possibile forma di libertà. Le manifestazioni, per lo più pacifiche, si trasformavano in un consueto bagno di sangue: la libertà di associazione, in Siria, non era contemplata.
Da allora sono passati due anni e mezzo, il conflitto si è inasprito e il regime di Bashar al-Assad ha prodotto qualcosa come 110.000 vittime – 40.000 delle quali tra la popolazione civile. Colpo su colpo, i massacri si susseguivano. Nemmeno il tempo di piangere le 108 vittime della strage di Hula (25 maggio 2012), che il regime replicava l’atroce spettacolo ad Hama (6 giugno 2012). Il focolaio era destinato a tramutarsi in guerra civile.
Il susseguirsi imperterrito di simili efferatezze lasciava sgomenta la Comunità Internazionale, fino al punto di annichilirla. Del tutto vana ogni ipotesi di mediazione attraverso la Lega Araba, vana la conferenza di Ginevra, vani gli effetti delle sanzioni economiche al regime, vano il Piano di pace in 6 punti di quei 300 osservatori che l’ONU ha inviato in Siria sotto la guida di Kofi Annan. Varrebbe la pena insistere ad oltranza, ma le ragioni sono sufficientemente valide per ipotizzare che il conflitto, in Siria, può solo peggiorare.
Finalità dell’ONU, la promozione dei diritti dell’uomo e la tutela dell’ordine internazionale. Quei diritti, in Siria, vengono calpestati quotidianamente da due anni e mezzo almeno. Ma la tutela dell’ordine internazionale, spesso, non necessariamente passa attraverso il riconoscimento e la salvaguardia della dignità umana. Generalmente, le Nazioni Unite optano per la non ingerenza negli affari interni di uno Stato; specie nel caso in cui, tale ingerenza, potesse inasprire un conflitto in una determinata porzione dello scacchiere geopolitico – così è accaduto in Siria, in effetti, ove un intervento umanitario avrebbe rischiato di destare i malumori atomici dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad.
L’eventuale intervento umanitario, viene dunque avallato dall’ONU solo nel caso di gravi infrazioni nel diritto internazionale. Benché indiscutibile che la carneficina di Assad abbia rappresentato un evidente oltraggio ai danni della dignità umana, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non era in possesso di elementi sufficientemente validi per autorizzare un intervento (militare). Ai sensi della legge internazionale, i sistematici massacri di Assad ai danni dei propri oppositori politici non rappresentano genocidio; ai sensi del medesimo ordinamento giuridico, l’iniziativa bellica del regime non rappresenta un crimine contro la pace sanzionabile a livello internazionale. Lo sono la tortura e i sistematici omicidi. Ma le Nazioni Unite, come si è detto, preferiscono optare per la non ingerenza negli affari interni di uno Stato. Diplomazia o intervento militare? In un modo o nell’altro, il conflitto siriano ha rivelato l’ONU in ognuna delle sue fragilità. Almeno nella sua prima fase.
La notte tra il 20 e il 21 agosto del 2013, la svolta. Sono state usate delle armi chimiche nei pressi di Ghuta, sobborgo a est di Damasco. 1402 vittime, le immagini lasciano poco spazio all’immaginazione: non si è trattato di armi da fuoco, alcuni video sono testimoni di decessi per soffocamento. Gas nervino. Violazione della Convenzione di Ginevra (1980) sull’utilizzo delle armi convenzionali e, in particolare, violazione della Convenzione di Parigi sulle armi chimiche (CWC, 1993). Crimine contro l’umanità che legittimerebbe un intervento delle Nazioni Unite.
John Kerry, promotore della Conferenza “Amici della Siria” si è elevato a massimo fautore di un intervento militare in Siria – il Segretario di Stato Americano, nel 2003 strenuo oppositore di una campagna bellica contro Saddam Hussein. Il paragone con l’Iraq, è in effetti inevitabile. Una campagna contro le armi di distruzione di massa, per legittimare l’egemonia a stelle e strisce – peraltro non c’è più Ahmadinejad, in Iran. Le armi di distruzione di massa, in Iraq, non vennero mai trovate. Più semplice l’argomentazione, in Siria. Almeno in linea teorica.
Ci vorrà un po’ di tempo ancora perché gli osservatori ONU inviati in Siria rendano noti i risultati delle proprie analisi. Ciononostante, pare non vi sia dubbio alcuno che in Siria siano state utilizzate armi chimiche. Non è ancora chiaro, tuttavia, se le tali armi siano state utilizzate dal regime o meno – elemento non trascurabile. Vi sarebbero ragioni sufficientemente valide per ipotizzare che l’arsenale sia in dotazione al regime di Assad ma, a ben vedere, che senso avrebbe avuto per il giovane dittatore rilasciare un attacco chimico proprio alla vigilia di un’ispezione ad hoc decretata dalle Nazioni Unite – provocazione avanzata da Vladimir Putin, non priva di inconsistenza.
Qualora gli osservatori dovessero accertare le responsabilità di Bashar al-Assad, tuttavia, un eventuale intervento militare delle Nazioni Unite potrebbe essere considerato legittimo purché avallato dal Consiglio di Sicurezza. Ciò non avverrà. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU delibera per maggioranza, ma è necessario l’appoggio incondizionato dei cinque membri permanenti. Ebbene: oltre al veto di Russia e Cina, anche la Gran Bretagna sarebbe costretta a votare a sfavore. La questione è stata affrontata in seno al Parlamento britannico, che ha bocciato la mozione del governo (285 voti contrari, 272 a favore) – peraltro registrando una pesante sconfitta del Premier David Cameron, sbeffeggiato dal leader labour Ed MIliband per questioni di mero opportunismo politico.
Malgrado la corretta osservazione sulle reali responsabilità inerenti all’attacco chimico del 21 agosto, non sono ben chiare le ragioni del veto di Vladimir Putin – e della sua supposta vicinanza al regime di Assad. Questioni d’opportunità politica anche in questo caso, ipotizzano i più. Il timore di un’ennesima operazione politica orchestrata dagli Stati Uniti per favorire la destituzione di un sovrano e la conseguente sostituzione con un governo più favorevole ai propri interessi. O forse il timore di una nuova ondata jihadista – alcune regioni della Federazione Russa sono a maggioranza islamiche.
Benché non siano ancora chiari i termini esatti di un’eventuale strategia militare, sembra che questa non dovrebbe condurre alla destituzione artificiosa del sovrano. Nelle intenzioni statunitensi, anzi, essa dovrebbe avere una durata parecchio limitata. Spedizione punitiva esemplare ma circoscritta in un breve lasso di tempo, quel tanto che occorra per dimostrare al regime che le armi chimiche non vanno usate – in quanto palese violazione di diritto internazionale.
E’ anche in virtù di tale ragione, che un intervento bellico potrebbe non essere una soluzione errata. Se non si prendesse in considerazione tale opzione, è chiaro che a questo punto Bashar al-Assad dovrebbe sentirsi legittimato a moltiplicare gli attacchi chimici nei confronti della propria popolazione. Ma, a ben vedere, proprio per motivazioni analoghe, che senso avrebbe una strategia a breve termine? Pur costretto a rinunciare al proprio arsenale chimico, il dittatore sarebbe comunque legittimato a perseguire il proprio progetto finalizzato al massacro della propria popolazione.
Tra le perplessità dei non interventisti, il timore che un’operazione bellica possa condurre a nuove situazioni d’instabilità – magari favorendo il proliferare di guerriglieri jihadisti. Probabile, ma d’altra non è nemmeno possibile tollerare la cruenta carneficina del macellaio di Damasco e, in ogni caso, l’annosa “questione jihad” è un problema che si sta diffondendo comunque proprio a causa dell’inezia della Comunità internazionale. Certo, l’esercizio della democrazia è un processo non immediato e alquanto difficile. Proprio in virtù di tale ragione la Siria avrebbe bisogno di un programma a lunga scadenza, un programma che abbia a cuore le sorti della popolazione siriana e che tenga conto del fatto che la sfida maggiore comincia proprio nel momento in cui il sovrano sia stato deposto.
Alla fine la “red line” di Barack Obama è stata oltrepassata davvero, ed il Presidente degli Stati Uniti si è sottoposto in questi giorni a una lunga serie di critiche – vuoi per il presunto opportunismo politico, vuoi per presunta debolezza. Ben più lucido del suo precipitoso Segretario di Stato, il Presidente si è invece dimostrato risoluto ma prudente. Contrario alla creazione di un regime artificiale, favorevole a un intervento con esclusive finalità umanitarie. Ma non a tutti i costi. Non senza il consenso del Congresso – che dovrebbe prendere la propria decisione entro il 15 settembre. Non è detto che il Congresso si esprimerà a favore di un intervento “umanitario” ma è verosimile che lo faccia. Non è chiaro quali contorni assumerà la missione, è probabile che non riceverà la benedizione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Diplomazia o intervento militare? In un modo o nell’altro, il conflitto siriano ha rivelato l’ONU in ognuna delle sue fragilità.
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