Una rivoluzione incompiuta
Si dice che l’Egitto sia ancora alla ricerca della sua democrazia e del suo modus vivendi laico e libertario. Si dice che in Egitto lo scontro politico e civile sia pane quotidiano e che in troppi stiano perdendo la vita e la dignità
di Martina Martelloni
Nel giugno del 2012, il candidato dei Fratelli musulmani Mohamed Morsi è stato eletto presidente al secondo turno delle elezioni sbocciate dalla caduta di Mubarak. Il 3 luglio 2013 Morsi non è più padrone della carica presidenziale. Deposto dall’intervento militare in seguito a continue proteste cittadine, l’ex presidente eletto dal popolo solo un anno prima è ora dietro le sbarre di ferro sotto stretta sorveglianza degli uomini in divisa, gli uomini della Difesa e dello Stato.
Un’estate infinita e bollente, che ha segnato giorno per giorno il calendario egiziano, arabo, mondiale. Agosto come mese di scontri e morti, troppi uomini hanno perso la vita durante manifestazioni di strada in nome del loro leader destituito e del loro partito fortemente religioso che in un anno non è riuscito ad ammaliare e conquistare la totalità dei cuori egiziani. Quelli che i media etichettano per comodità e semplicità linguistica e comunicativa, come i “pro-Morsi”, sono stati osteggiati da muri di militari pronti a difendere e mantenere lo status quo ottenuto con il golpe di luglio.
Militari, polizia, forze armate tutte unite contro una minoranza esigua ma comunque di peso della società egiziana. I Fratelli Musulmani hanno indetto più volte scioperi e marce di protesta, terminate il più delle volte con lotte civili, corpo contro corpo, egiziano contro egiziano. In quelle stesse ore, tutti i leader del governo, ad uno ad uno, venivano catturati ed incarcerati per la gioia di coloro che il 3 luglio osannarono gli elicotteri militari svolazzanti in cielo in segno di appoggio, conquista, forza e potere contro Morsi.
Nello scontro tra anti e pro Fratelli Musulmani, si racchiude un ulteriore drammatico squarcio della realtà religiosa. I copti, che in Egitto rappresentano una percentuale che oscilla tra il 14% e 20% della popolazione, hanno subito in prima persona le ire funeste di chi si è abbattuto contro le loro chiese, i loro simboli della cristianità e fede diversa dalla prevalente musulmana. Le accuse degli incendi alla Casa del Dio cristiano sono state rivolte proprio ai Fratelli Musulmani, che ovviamente rinnegano la loro responsabilità.
A tirare le fila dell’agire repressivo e militaresco è il generale Abdel Fattah al Sisi. Un cinquantottenne dall’aspetto pulito ed ordinato che come comandante delle forze armate e ministro della Difesa, si fa portavoce del vecchio regime ribaltato da quella oramai storica primavera Araba.
Un uomo di Stato che ha assistito, come tutti noi, inerme e forse consenziente al massacro umano avvenuto quel 14 agosto quando la polizia sgomberò nella capitale del Cairo due accampamenti di protesta dei sostenitori di Morsi causando circa seicento vittime.
La collera dei Fratelli Musulmani lotta contro quella di chi è stanco di Mubarak, di Morsi e di tutti coloro che una volta seduti sul trono faticano per pigrizia e mancato interesse a risollevare una situazione economica in discesa, senza freni e senza fermate.
Se si parla con chi ha voluto che il governo Morsi giungesse al capolinea, ti dice che questo è ciò che la popolazione vuole ed è ciò che i militari devono fare essendo loro il corpo e la testa delle azioni. I militari, per molti egiziani, sono al fianco e nel cuore della gente. Per altri, che parlano di libertà, rivoluzione e democrazia, il loro intervento è degenerato, strumentalizzato e indegno del reale valore che i rivoluzionari di piazza Tahrir continuano coraggiosamente a gridare da due anni ad oggi. Nulla di tutto ciò che è accaduto nelle sanguinose giornate d’agosto rispecchia le loro intenzioni ed il loro sogno di un Egitto laico, culla di religioni e diritti.