La prima esperienza di Ghigliottina alla Mostra di Venezia
Il resoconto della Settantesima Edizione della Mostra Cinematografica di Venezia: un’edizione sottotono rispetto agli anni scorsi, ma che ci riserva ancora qualche perla, anche se al di fuori del concorso ufficiale
di Giulia Marras
Ammetto che, complice la collaborazione appena nata, Ghigliottina ho voluto portarcela io a Venezia. Un po’ ne sono orgogliosa e ne è valsa sicuramente la pena.
Era la prima volta, sia per me che per la testata, tutto era nuovo e misterioso, affascinante e distante allo stesso tempo, familiare e completamente sconosciuto. Distante e sconosciuto perché quello del Lido è un mondo riservato a pochi privilegiati, con l’Hotel Excelsior a far da quartiere generale, i tappeti rossi incalpestabili, il glamour e il lusso, così poco conforme al periodo attuale, le colazioni e i pranzi e le cene d’oro, le fantomatiche star. Si dice che quest’anno sia stato molto più sobrio e serio rispetto al passato, ma io non posso testimoniarlo.
Ma da un’altra parte, si ritrova un ambiente più vicino, ecco perché familiare, come sopra. Il mondo composto dai giornalisti, giovani e vecchi, stagisti e pagati. Pur se differenziati in fasce di stampa diverse, ci si scambiano occhiate di solidarietà, tra le file, in sala stampa, nella stanchezza generale di chi viene a Venezia per guardare 5/6 film al giorno e recensirli nei buchi (spazio)temporali. E poi gli operatori, i fotografi, gli studenti. Che si ritrovano 10 giorni all’anno in un posto letto risicato, in campeggio, a chilometri e chilometri di distanza dal Movie Village, solo per una ragione: l’amore per il cinema. Ed è questo che conta alla fine in un Festival e di questo bisogna parlare.
In generale, ci si aspettava un po’ di più. O meglio, le opere più belle si sono viste fuori dal concorso ufficiale ed è stato un peccato. A partire da Gravity, di Alfonso Cuarón, film d’apertura del festival, la cui accoglienza ci era parsa prima esagerata ma poi riequilibrata rispetto alla qualità dei film successivi. E poi Locke di Steven Knight, Still Life di Uberto Pasolini (pur vincitore del Premio Orizzonti per la Regia), Die andere Heimat di Edgar Reitz, o ancora il documentario sulla vita universitaria di Berkeley di Peter Wiseman, l’esilarante quanto audace Why don’t you play in Hell di Sion Sono, o il bellissimo e sorprendente mediometraggio Redemption del portoghese Miguel Gomes. Senza dimenticarci del solido Kim Ki-duk e il suo Moebius che non ha mancato anche quest’anno di scandalizzare e di rassicurare sulla sua continua creatività. Film che, in sostanza, sarà difficile vedere nelle normali sale cinematografiche e proprio per questo forse meritavano più visibilità e risonanza (Moebius è stato proiettato solo due volte e nelle sale più piccole della Mostra).
In concorso invece ha regnato l’immobilità immaginativa e visiva, con l’invasione americana (Tracks, Parkland, Night Moves, Joe e anche Child of God, deludentissimo nella sua trasposizione letterale e impersonale del romanzo di McCarthy), il non troppo enigmatico quanto ridicolo The Canyons di Paul Shraeder e Terry Gilliam che rimane uguale a se stesso. Sul fronte italiano, mentre convince l’esordio di Emma Dante in Via Castellana Bandiera, che si porta a casa la Coppa Volpi per la Migliore interpretazione femminile di Elena Cottala, è sconcertante la caduta di Gianni Amelio con L’intrepido.
Questo festival ce l’hanno salvato gli inglesi, ancora una volta, con oltre al già citato e teatrale Locke, all’applauditissimo Philomena di Stephen Fears, che ha vinto come Miglior Sceneggiatura, meritatamente (il Leone d’Oro non sarebbe stato meritato, forse per la troppa classicità mantenuta dal racconto, comunque costruito a pennello e su un argomento, quello dei silenzi sulle vecchie “malefatte” della Chiesa Cattolica), e Under The Skin di Jonathan Glazer, che torna dopo sei anni dopo Birth – Io sono Sean, con un film concettualmente solido, metaforico, ma non capito dalla maggior parte della critica a Venezia.
Infine ci sono i vincitori morali, che in questa edizione corrispondono a quelli reali: vince il tema della violenza domestica, con il sottovalutato La moglie del poliziotto di Philip Groening, che vince il Premio Speciale della Giuria (ma che secondo noi avrebbe dovuto ottenere un riconoscimento più alto), e, a sorpresa, il greco Miss Violence di Alexandros Avranas (forse però troppo simile allo stile connazionale Lanthimos per risultare innovativo). Giusta l’indifferenza per Miyazaki (che avrebbe potuto portarsi qualcosa a casa solo per il suo annuncio di ritiro, data la debolezza del film presentato), e giuste le assegnazioni ai premi più importanti: il Leone d’Argento a Stray Dogs di Tsai Ming Liang e il Leone d’Oro a Gianfranco Rosi con Sacro Gra, il documentario girato sul Grande Raccordo Anulare e i personaggi che vi abitano. Un’importante vittoria non solo per il cinema italiano, ma anche per il genere documentario, rappresentato anche da The Unknown known di Errol Morris, una bizzarra intervista all’ex segretario della difesa americana, Donald Rumsfeld.
La giuria, presieduta dall’ex-riluttante Bertolucci, sorprende e al tempo stesso non ci riesce, pescando tra i pochi film di spessore, abbandonando però le scelte veramente coraggiose.
Il vero Festival di Venezia vissuto da chi lo promuove, lo racconta, lo critica, non è fatto però di premiazioni ufficiali, prime, red carpet, autografi, ma di toto-leoni, proiezioni speciali, scambi fugaci di parole con i registi girovaghi, classifiche personali.
Nelle prossime settimane, Ghigliottina vi offrirà recensioni più approfondite sui film visti a Venezia, privilegiando le chicche che qua abbiamo tralasciato appositamente, e le uscite nelle sale italiane. Ma nel frattempo vi consigliamo di non limitarvi ad esse: cercate, scavate, perché spesso il miglior cinema non si trova in sala, né in quello di quartiere, né nei concorsi ufficiali dei festival.